sabato 7 aprile 2012

Libera Bielorussia per una libera Europa

Pubblicato su EastJournal, 23 marzo 2012
C’è un paese in Europa dove i diritti umani e le libertà fondamentali non sono tutelate; dove la polizia politica esiste ancora (si chiama KGB) e i dissidenti non possono espatriare, quando non sono accolti nelle patrie prigioni. Dove la pena di morte esiste ancora, e dopo un processo senza garanzie si viene giustiziati con un colpo di pistola alla nuca. Finché la Bielorussia non sarà libera, l’intera Europa non lo sarà.
Il 18 marzo 2012 è stato il Free Belarus Action Day: una giornata di attivismo continentale, lanciata dalla Jeunesse Federaliste Européenne (JEF) per tenere alta l’attenzione sulla situazione dell’ultima dittatura d’Europa, il regime di Aleksander Lukashenko in Bielorussia. L’azione si svolge in più di cento città in Europa, in cui delle statue vengono imbavagliate per ricordare come ancora oggi la libertà d’espressione sul nostro continente non sia una conquista da dare per scontata.
EastJournal ha partecipato collaborando con la JEF di Torino per un incontro pubblico, lunedì 12 marzo, in cui ho presentato il regime politico di Lukashenko secondo la categoria di scienza politica del “neo-autoritarismo”, seguendo l’analisi del politologo bielorusso Pavel Usov.
Nell’ultima settimana ancora altre news sono arrivate da Minsk. Le segnalo in breve.
Eseguita la pena di morte per i presunti attentatori della metropolitana di Minsk
Uladzislau Kavalyou e Dzimitry Kanavalau sono stati giustiziati il 17 marzo con un colpo di pistola alla nuca, nonostante gli appelli internazionali (tra cui quelli dell’UE e di Angela Merkel) per la sospensione della pena. Lukashenko ha negato loro la grazia, dopo un procedimento senza le garanzie dell’equo processo e senza possibilità di una vera difesa. I loro corpi sono stati interrati in località segreta, e le famiglie sono state avvertite solo a sentenza già eseguita. In italiano, ne ha parlato Matteo Mecacci su Radio Radicale
I due operai ventiseienni erano stati condannati come esecutori materiali degli attentati alla metropolitana di Minsk dell’aprile 2011, che avevano causato 15 vittime e 203 feriti. EastJournal se ne era occupato subito dopo l’attentato.
Il 16 marzo 2012, attivisti dell’opposizione avevano organizzato una cerimonia di commemorazione delle vittime dell’attentato, chiedendo anche la ripetizione del processo e una moratoria sulla pena di morte.
Impedito l’espatrio all’ex capo di stato Shushkevich
In reazione all’inasprirsi delle sanzioni europee contro i fedelissimi di Lukashenko, con divieti di ingresso in area Schengen (di cui ha parlato Giovanni Bensi qui e qui), il regime di Minsk ha stilato una lista segreta di oppositori e dissidenti a cui è vietato l’espatrio, contraria alla stessa legge bielorussa. Tra questi, come era inizialmente trapelato, vi è anche il primo capo di stato della Bielorussia indipendente, Stanislau Shushkevich, che è stato rimosso da un treno in direzione di Vilnius, dove doveva tenere delle conferenze.
La Bielorussia nella lista nera dei regimi anti-internet e nemici della libertà di stampa
Il nuovo rapporto di Giornalisti Senza Frontiere ha inserito la Bielorussia nella lista nera dei regimi nemici di internet, dopo l’entrata in vigore, il 6 gennaio, del Decreto 60/2011 sulla responsabilità dei provider e sul filtraggio dei contenuti, inclusi i siti dei movimenti di opposizione (East Journal se ne era occupato qui, qui e qui).
Il regime sta anzi iniziando ad utilizzare attivamente internet per minacciare i dissidenti. La Bielorussia è ora l’unico paese “nero” in Europa, dove anche Francia, Russia e Turchia sono listate in “zona rossa”.
Il regime di Minsk continua ad applicare la censura e a dare la caccia ai giornalisti, domestici e stranieri. Più di 30 giornalisti bielorussi sono stati imprigionati nel 2011.

domenica 18 marzo 2012

UNIONE EUROPEA: Londra blocca l’adesione alla Convenzione Europea dei Diritti Umani

pubblicato su  EastJournal, 14 marzo 2012

di Davide Denti

La sede della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, a Strasburgo.
“L’Unione Europea accede alla Convenzione Europea per la salvaguardi dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali”, statua perentorio l’articolo 6 del rinnovato Trattato sull’Unione. Ma a tre anni dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’articolo 6 resta inattuato. Certo, non si tratta di un compito semplice: non si è mai vista una integrazione tra due organizzazioni internazionali separate (l’UE e il Consiglio d’Europa, organizzazione “madre” della CEDU), in cui l’UE entrerebbe a far parte in parità con i propri stessi stati membri. Ma le questioni tecniche sono manna per i giuristi, e così già a fine 2011 era pronto un progetto di strumento giuridico per finalizzare l’adesione. Passa Natale, arriva il 2012, eppure nulla si muove.
Barbara Lochbihler (membro dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa) e Kerstin Lundgren (eurodeputato liberale svedese) hanno così richiamato l’attenzione dei legislatori dei paesi membri attraverso un appello, il 25 gennaio 2012, perché il processo di adesione non deragli. L’adesione dell’UE alla CEDU è necessaria a garantire la coerenza tra la giurisprudenza delle due corti (la Corte di giustizia dell’UE, a Lussemburgo, e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo), a sottoporre anche le norme europee allo stesso scrutinio in materia di diritti umani delle norme nazionali dei 27 paesi membri, e a creare uno “spazio comune europeo dei diritti dell’uomo”.
Dietro il blocco si intravede il veto di Londra. La Gran Bretagna non è mai stata una grande sostenitrice della Corte di Strasburgo, sin da quando, negli anni ’70, la CEDU si trovava a decidere sui casi dei prigionieri IRA torturati dagli agenti inglesi. Ma la pietra dello scandalo oggi, tra Strasburgo e Westminster, è dovuta a due tematiche: in primo luogo, la ripetuta richiesta della CEDU di modificare la norma che priva automaticamente i prigionieri delle carceri inglesi del diritto di voto; in secondo luogo, i sempre più numerosi casi riguardanti il divieto di l’espulsione di cittadini stranieri verso paesi a rischio, impopolari soprattutto quando non si tratta di biondi bambini bielorussi, ma di barbuti predicatori islamisti.
Nemmeno la nomina di un inglese, Sir Nicolas Bratza, a presidente della Corte di Strasburgo è servita a distendere i rapporti e a far riguadagnare credibilità alla Corte. Il populismo risorgente a Westminster e lo “sciovinismo costituzionale” del governo Cameron non hanno aiutato in questo. Infine la stampa britannica, tipicamente non incline ad apprezzare le istituzioni europee – né tantomeno a distinguerle l’una dall’altra – si è lanciata sulla tematica, proponendo in ultimo un referendum sull’adesione dell’UE alla Convenzione CEDU, se non il ritiro del Regno Unito dalla Convenzione CEDU, o addirittura dalla stessa Unione Europea.
Proprio ora il Regno Unito detiene la presidenza rotativa del Consiglio d’Europa, e ha l’incarico di organizzare una conferenza intergovernativa a Brighton, incaricata di esaminare e proporre soluzioni per il miglioramento del sistema di controllo della Corte di Strasburgo, in linea con le dichiarazioni di Interlaken 2010 e Izmir 2011. La bozza della dichiarazione di Brighton include diversi elementi consensuali, ma anche una proposta allarmante: che la Corte non giudichi su casi in cui abbia già giudicato una corte nazionale, a meno che questa abbia “chiaramente errato” o che il caso susciti una questione seria circa la Convenzione. Secondo Philip Leach, tale formulazione avrebbe l’effetto di  restringere indebitamente il campo di azione della Corte. Alcuni casi chiave, come quello circa la conservazione per tempo indefinito dei dati personali (DNA e impronte digitali) di un milione di cittadini inglesi incensurati, non sarebbero in tal caso mai arrivati a giudizio: secondo la Camera dei Lord, tale procedura non violava il diritto al rispetto della vita privata, secondo la corte di Strasburgo sì. Il governo inglese cercherà di far passare tale formulazione nel testo finale della dichiarazione di Strasburgo, appoggiandosi alla complicità di altri stati poco contenti dell’azione della Corte – in primis Russia e Turchia. Starà agli altri 46 membri del Consiglio d’Europa tenere alta l’attenzione e far sì che nessun tentativo di limare le unghie ai giudici di Strasburgo possa passare indisturbato.

Un Parlamento per gli ebrei d’Europa? La scommessa di due oligarchi ucraini

Pubblicato su EastJournal, 13 marzo 2012

di Davide Denti

Si è riunita per la prima volta il 17 febbraio 2012 a Bruxelles, nei locali del Parlamento Europeo, l’assemblea dello European Jewish Parliament (EJP): 120 membri, eletti tramite internet e rappresentativi delle diverse comunità ebraiche di 54 paesi del continente allargato, da Monaco all’Uzbekistan. L’iniziativa è della European Jewish Union (EJU), con l’intento di rappresentare i due milioni di ebrei in Europa e creare uno spazio di dibattito a livello continentale e di  rappresentazione nei confronti dell’Unione Europea.
La European Jewish Union è una ONG fondata nella primavera 2011 da due milionari ucraini di origini ebraiche, Vadim Rabinovich e Ihor Kolomoyskyi. Kolomoyskyi aveva tentato di essere eletto presidente del European Council of Jewish Communities (ECJC) – un’organizzazione fondata 40 anni fa – promettendo una donazione di 14 milioni di dollari in cinque anni; Rabinovitch era già vicepresidente dell’ECJC. Fallita la scalata, i due decisero di mettersi in proprio con la EJU.
Il progetto di Parlamento ebraico europeo era partito in maniera semi-seria: le nomine dei candidati erano avvenute all’insaputa dei candidati stessi, e includevano personalità quantomeno controverse, quali Sacha Baron Cohen (l’attore di Borat), oltre a David Beckham e Stella McCartney. I voti via internet sono stati circa 400.000; tuttavia non è certificato che i votanti abbiano votato una sola volta, o solo per i candidati del proprio paese.
Nella lista dei membri eletti all’EJP, appaiono nomi noti: il primo l’ambasciatore Jakob Finci, delegato per la Bosnia-Erzegovina, e noto per aver vinto contro il proprio paese un caso alla Corte Europea dei Diritti Umani per avere la possibilità di presentarsi alle elezioni presidenziali (da più di due anni la Bosnia è in violazione per non aver ancora riformato la costituzione di Dayton a questo proposito).
L’Italia sarebbe rappresentata da Vittorio Pavoncello, consigliere dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, e da Roger Coianiz – lettore di lingua inglese all’Università di Udine. Per la Francia risulta eletto Pierre Besnainou, presidente della fondazione del giudaismo francese; per la Gran Bretagna Oliver Mishcon, giurista; per il Belgio, Joel Rubinfeld, intellettuale.
Resta da chiarire se effettivamente Finci, Besnainou e gli altri erano al corrente della propria candidatura, e se vorranno ricoprire il posto loro riservato a Bruxelles.

Stasera a Torino si protesta contro Lukashenko

Questa sera, 12 marzo, in via Schina 26 a TorinoDavide Denti -redattore di East Journal- terrà una relazione su “sistema politico e libertà d’espressione in Bielorussia”. L’incontro di stasera s’inserisce nella più ampia iniziativa di protesta promossa dalla JEF (Jeunes Européens Fédéralistes) che  ogni 18 marzo coordina una street action (qui la presentazione) che ha luogo nella stesso giorno in più città europee. La street action ha lo scopo di richiamare l’attenzione dei cittadini europei sulla particolare situazione bielorussa. Anche quest’anno e per l’ottava volta consecutiva, i giovani federalisti europei protesteranno contro le restrizioni della libertà di espressione in Bielorussia.
Una politica estera europea, comune a tutti gli stati membri, avrebbe la forza e l’interesse a farsi garante dei diritti della popolazione bielorussa. Il condizionale è d’obbligo, ma perché diventi un imperativo è necessaria una spinta dal basso.
Quest’anno quindi, le sezioni di Torino e di Novara della Gioventù Federalista Europea, nella giornata del 18 marzo, anniversario delle elezioni presidenziali del 2006, hanno deciso di bendare una statua della città in segno di protesta.
East Journal si unisce alla protesta promuovendo questo incontro di avvicinamento.
L’appuntamento è dunque questa sera, 12 marzo, in via Schina 26 a Torino. Chi si trova in zona è invitato a passare.

BIELORUSSIA: Soffia il gelo tra Minsk e Bruxelles

Pubblicato su EastJournal il 12 marzo 2012

di Davide Denti


Le relazioni tra l’Unione Europea e la Bielorussia non si sono più riprese a seguito delle elezioni contestate del dicembre 2010 e della stretta del regime di Minsk sull’opposizione. Ultimo atto: a fine febbraio, a seguito dell’introduzione di ulteriori “sanzioni intelligenti” da parte dell’UE (divieti di transito in area Schengen e congelamento dei beni a più di 200 personalità compromesse con il regime), il regime di Lukashenko ha espulso dal paese l’ambasciatore UE e l’ambasciatore polacco e richiamato i suoi ambasciatori da Bruxelles e Varsavia.  Come risposta, il Servizio di Azione Esterna dell’UE ha concertato il ritiro di tutti gli ambasciatori dei paesi membri UE dalla Bielorussia, superando le ritrosie di alcuni stati membri.
Secondo il think-tank polacco Solidarity with Belarus, la principale motivazione dell’espulsione degli ambasciatori da parte di Lukashenko sarebbe interna. L’uomo forte di Minsk intenderebbe così mobilitare l’apparato statale e la comunità industriale del paese attorno a sé, indebolendo i potenziali rivali.
Il round di sanzioni del 2012 era stato deciso dopo un’intensa discussione in sede UE, data in particolare l’opposizione della Slovenia. Pare che l’oligarca bielorusso Yuri Chizh, incluso nella lista, fosse socio dell’impresa slovena Riko per un progetto di sviluppo edilizio da 100 milioni di euro, attorno al nuovo Hotel Kempinsky di Minsk: una cifra non indifferente per una piccola economia come quella slovena. Il veto sloveno aveva mandato su tutte le furie in particolare il ministro polacco Radek Sikorski (la Polonia è uno dei paesi UE più attenti alla situazione interna della Bielorussia, il cui confine passa a 200 chilometri da Varsavia); Lubiana aveva infine dovuto cedere e dare l’assenso alle nuove sanzioni.
Un’ulteriore motivo di attrito con le istituzioni europee per Minsk era dato dalla risoluzione del Parlamento Europeo del 16 febbraio. L’assemblea di Strasburgo condannava le due sentenze di morte comminate ai presunti responsabili dell’attentato alla metropolitana di Minsk del dicembre 2010, chiedendo una moratoria sulla pena di morte in Bielorussia, unico stato europeo a comminarla ancora. Il Parlamento Europeo puntava il dito anche contro la mancanza di un giusto processo e la presenza di abusi dei diritti umani degli imputati. Il ministero degli esteri bielorusso non si era fatto attendere, replicando come “il Parlamento Europeo di fatto sta con i terroristi, questionando in maniera incompetente le conclusioni dell’investigazione e la sentenza della corte sul caso. Il Parlamento interferisce scandalosamente nell’amministrazione della giustizia di uno stato sovrano, cosa che non gli fa onore”.
Le relazioni tra Minsk e Bruxelles hanno passato diverse fasi, tra coinvolgimento e isolamento. Nessuna strategia dell’UE è finora riuscita ad ottenere una qualche liberalizzazione da parte del regime bielorusso, che sembra oggi sempre più avvitato su se stesso, certo che qualsiasi concessione potrebbe significare l’inizio della fine; le condizioni dei diritti umani a Minsk e dintorni sono oggi più preoccupanti di quanto non lo fossero nel periodo 2008-2010.
Le sanzioni UE sono state criticate su più piani. Da una parte, oltre ad essere pressoché simboliche, sono anche spesso inefficaci, poiché alcuni dei personaggi banditi dall’area Schengen riescono comunque a visitarla grazie ad eventi diplomatici internazionali: George Plashchinsky riporta, tra gli altri, il caso del ministro degli interni di Lukashenko, Anatoly Kuleshov, personalmente responsabile per la repressione del dissenso in Bielorussia, che nel gennaio 2012 ha viaggiato fino a Lione per una riunione del segretariato generale dell’Interpol. La posizione del segretario di Interpol, Ronald K. Noble è stata criticata da chi, come Louise Hogan, si chiede come condividere informazioni con la polizia bielorussa possa migliorare la sicurezza dei cittadini bielorussi: “La Bielorussia è essenzialmente uno stato di polizia. Ora può diventare uno stato di polizia con maggiori capacità e risorse”.
Secondo altri, la chiave per il cambiamento politico in Bielorussia sarebbero sanzioni economiche tanto forti da far crollare l’economia e, con essa, il regime. Tuttavia, rimarca Plashchinsky, la peggiore crisi dal tempo dell’indipendenza ha colpito la Bielorussia nel 2011, senza che alcuna protesta di piazza si sia concretizzata: i bielorussi sono oggi forse più interessati a cercare di far tornare i conti di casa che a protestare. I dati dell’istituto IISEPS, basato a Vilnius, indicano comunque che la crisi del 2011, con l’inflazione al 209% e i salari reali dimezzati, ha spezzato il contratto sociale tacito tra Lukashenko e i cittadini bielorussi: sussidi in cambio di lealtà. Per la prima volta, solo un terzo dei bielorussi ha fiducia nel presidente, e solo un quarto lo voterebbe ancora. I prestiti della Russia di Putin hanno permesso all’economia bielorussa di tenersi a galla, al prezzo della cessione strisciante delle imprese di stato, primo fra tutti il monopolio del trasporto dell’energia. Ma la situazione economica del paese resta precaria.
Come ricorda Maryna Rakhlei, da una parte sembra che solo sanzioni esterne più restrittive possano influenzare la situazione in Bielorussia, e che sia immorale negoziare con un regime che pesta i dissidenti e tortura gli oppositori incarcerati. Dall’altra parte, le sanzioni dell’UE restano simboliche e non andranno  oltre i divieti di transito e il congelamento dei beni dei personaggi più compromessi; ci sarà bisogno comunque di parlare con il regime, per garantire la liberazione dei prigionieri politici e preparare un eventuale futuro. Sarà importante quindi mantenere una posizione pragmatica e tesa ai risultati.
Come uscire da questo dilemma? L’UE ha lanciato nel 2011 una strategia “dual track”: colpire l’élite attraverso le sanzioni, e sostenere la società civile attraverso donazioni, procedure facilitate per i visti, e promuovendo opportunità di formazione e impiego per i cittadini bielorussi. Portarla avanti non sarà facile, visti i tempi.

martedì 6 marzo 2012

MACEDONIA: La Merkel e altri nomi che la Grecia non ama

Pubblicato su East Journal, 21 febbraio 2012

Angela Merkel si comporta sempre più come il presidente in carica, in Europa: nel bene e nel male, è lei che striglia i greci, minaccia i serbi, e sostiene i macedoni. Barroso, Van Rompoy, Ashton e Fuele possono prendersi un po’ di riposo, ci pensa Angie.
E se il macedone eponimo, Alessandro, era riuscito a risolvere il nodo di Gordio tagliandolo in due con la spada, riuscirà Angela Magna a fare lo stesso con la questione geopolitica più incomprensibile d’Europa, l’ostilità dei greci a non voler riconoscere uno stato che abbia lo stesso nome di una loro regione? (un po’ come se il Re del Belgio si fosse opposto all’indipendenza del Lussemburgo col pretesto che pure una provincia belga si chiamava già così, ohibò!).
Angela Merkel ha incontrato il presidente macedone, Nikola Gruevski, a Berlino il 14 febbraio. La questione principale sul tappeto – la volontà macedone di entrare nella Nato, e il veto greco.
“La Macedonia deve continuare il dialogo con la Grecia sulla questione del nome, per diventare un membro della NATO”, ha sottolineato la Merkel. “Le regole sono chiare – senza dubbio la Corte Internazionale di Giustizia è arrivata ad un verdetto che è un successo per il governo macedone. Personalmente credo che l’adesione alla Nato sia cruciale; la questione del nome deve essere risolta, ecco perché io continuerei risolutamente a negoziare con la Grecia per cercare una soluzione. Nell’Unione Europea siamo tutti abituati a trovare compromessi, altrimenti l’UE non sopravvivrebbe.”
Insomma, il messaggio è che la Germania sostiene l’adesione della Macedonia alla Nato, e la Grecia farebbe bene a tenerne conto; dall’altra parte, anche la Macedonia non può pensare che la crisi attuale della Grecia risolva tutti i problemi geopolitici del paese da sola, ma deve negoziare per un compromesso.
Accetteranno mai i greci un compromesso sulla questione del nome della Macedonia proprio ora che sono infilati, sembra senza scampo, nella crisi economica e sociale? Da una parte, problemi più scottanti a impegnare l’opinione pubblica ellenica potrebbero dare ai negoziatori di Atene un maggior margine di manovra; dall’altra, sentendosi sotto pressione tedesca su più fronte, potrebbe essere salutare per il governo greco dare un sollievo simbolico all’opinione pubblica con un secco rifiuto sulla questione del nome, per indorare la pillola dell’austerity.

KOSOVO: Il referendum dei serbi inguaia sia Pristina che Belgrado


A quattro anni dalla dichiarazione di indipendenza, la Repubblica del Kosovo è ancora un semi-stato. Da una parte, solo 88 stati la riconoscono come tale, inclusa Taiwan, che non è membro ONU, e gli ultimi arrivati del 2012, Ghana (23 gennaio) ed Haiti (10 febbraio). Dall’altra parte, la sovranità del governo di Pristina sul proprio territorio resta parziale, limitata dallo posizione ‘status-neutral’ di Eulex e dal rifiuto dei serbi del Kosovo di riconoscerne l’autorità.
Tra martedì e mercoledì, proprio i circa 35.500 elettori serbi del Kosovo si sono recati alle urne per un referendum autogestito nei quattro comuni di Zubin Potok, Zvecan, Kosovska Mitrovica e Leposavic. La domanda, secca: “Accettate le istituzioni dell’autoderminata Repubblica del Kosovo?”. La risposta, abbastanza scontata, sarà un “NE”. Circa il 60% degli elettori aveva già votato, a tre ore dalla chiusura dei seggi, secondo le autorità locali.
Il referendum non era autorizzato né da Pristina né da Belgrado, e rischia di dare parecchi grattacapi ad entrambi i governi.
Il referendum mina la credibilità delle autorità di Belgrado e la sua capacità nei negoziati con la comunità internazionale rispetto al problema del Kosovo - ha dichiarato il ministro serbo per il Kosovo e la Metohija Goran Bogdanovic -. Il progetto di un referendum fa gli interessi solo di alcuni politici e non porterà nulla di buono ai serbi. Da un punto di vista finanziario il voto sarà poco costoso, ma ci costerà caro in senso politico.”  Il negoziatore serbo con Pristina, Borislav Stefanovic, ha rimarcato come il referendum sia “insensato e anticostituzionale”.
Belgrado teme in particolare una sonora bocciatura da parte del Consiglio Europeo del 1° marzo, che dovrebbe decidere se concedere alla Serbia lo status di paese candidato all’Unione Europea, come suggerito dalla Commissione sin dal 2011, o se rimandare ancora tale riconoscimento, come già ottenuto dalla Germania a dicembre 2011, condizionandolo proprio al miglioramento dei rapporti tra Belgrado e Pristina.
Ma i serbi del Kosovo non ci stanno ad essere sacrificati sull’altare dell’integrazione europea della Serbia, e non intendono accettare il passaggio dei comuni a maggioranza serba sotto la sovranità di Pristina. “Vogliamo dimostrare la nostra posizione attraverso una procedura democratica regolare, e nessuna influenza, da Belgrado o da Pristina, ci farà cambiare idea. È evidente che il governo serbo ha fallito nella sua politica verso il Kosovo e verso l’UE”, nelle parole di Milan Ivanovic, presidente del Consiglio Nazionale Serbo del Kosovo del Nord. Tre dei quattro comuni serbi del Kosovo sono dominati dai partiti di opposizione all’attuale maggioranza liberale di Boris Tadic, e si stanno preparando alle elezioni politiche del 6 maggio 2012; l’opposizione guidata da Vojislav Kostunica spera di danneggiare il governo attraverso la questione del Kosovo e della candidatura all’UE, per tornare al potere.
Ma se Belgrado piange, Pristina non ride; il referendum evidenzia la mancanza di controllo del governo della Repubblica del Kosovo su parte del suo territorio, e secondo il governo di Pristina è invalido e illegale, anche se il ministro dell’interno Bajram Rexhepi cerca di minimizzare: “per quanto concerne il Kosovo e le sue relazioni internazionali, questo non cambia niente e può solo danneggiare le speranze serbe per uno status di candidato all’UE”. Lo scorso luglio, una mossa azzardata da parte del governo di Pristina, volta a prendere controllo dei posti di frontiera tra Kosovo e Serbia nel nord della provincia, aveva provocato la reazione dei serbi locali, con barricate e scontri durati settimane.

CROAZIA: Adesione Ue, la via della ratifica



La Croazia è a quota 2 e 1/2 su 27. Dopo la Slovacchia – che ha ratificato il trattato di adesione ancora prima del parlamento di Zagabria! – si è aggiunta lunedì l’Ungheria. E ieri anche la Camera dei Deputati ha dato il suo sì; iI voti sono presto contati: 483 si, 2 no, 30 astenuti (tra le fila di PDL e FLI). La palla passa ora al Senato.

BIELORUSSIA: Minsk, prevenire (la rivoluzione) è meglio che curare: la stretta del regime su internet

Pubblicato su East Journal, 12 gennaio 2012

di Davide Denti

Sarebbe da stupidi lasciare un’arma nella mano del proprio nemico, giusto? E così, dal 6 gennaio 2012, internet in Bielorussia subisce una nuova stretta. Secondo techdirt.com, la nuova legge comporta due restrizioni fondamentali:
- tutti i servizi e business internet devono essere basati o registrati in Bielorussia; anche Google pertanto dovrebbe impiantare una filiale o farsi registrare come “google.by”, per non rischiare sanzioni;
- tutti i gestori di rete (dagli internet café ai wifi condominiali) devono registrare il traffico degli utenti, e applicare filtri ai materiali pornografici (incluso qualsiasi materiale LGBT) o “estremisti”.
Pertanto, sempre secondo techdirt.com “anche se non è affatto vero che la Bielorussia ha reso illegale accedere a un qualsiasi sito estero, l’ha certamente reso rischioso; peggio, si conferma che tutti gli utilizzatori di internet devono essere spiati, e che i siti ‘proibiti’ vanno bloccati. Prese insieme, queste nuove misure consentono al governo di esercitare un controllo estremamente stretto sull’uso della rete nel paese. Con tali sistemi in atto, tagliar fuori veramente la Bielorussia dalla rete diventerebbe relativamente facile, se il suo governo decidesse di prendere tale decisione “estrema”. Anche perché tutti i servizi internet sono forniti dal monopolio statale Beltelecom, parte del Ministero delle Comunicazioni.
Proprio internet rischiava infatti di diventare uno strumento importante nelle mani di una contro-élite: i dati sulla penetrazione della rete nel paese mostrano una forte crescita, dal 29% del 2009 (dato pari alla media mondiale, e già il doppio del 14,6% dell’Ucraina e del 16,2% della Moldavia) al 46,3% del 2011. Il numero delle connessioni a banda larga, tuttavia, resta pressoché inesistente, solo poco più di 11.000 su un totale di 2,8 milioni, lo 0,003% contro il 12% dell’Ucraina e il 6,7% della Moldavia (dati 2009): come paese a basso reddito (300 € al mese, contro 500 €/mese di costo dell’adsl) che si affaccia da poco sulla rete, la Bielorussia ha iniziato dal doppino telefonico.
Il governo di Lukashenko sembra essersi accorto in ritardo della (relativa) libertà lasciata agli utenti di internet nel paese: una élite giovane, urbana, e ancora limitata, considerata non in grado di porre una seria minaccia alla nomenklatura attuale. Il controllo e filtraggio della rete è stato finora deliberato ma episodico, secondo OpenNet, e completato da consolidate pratiche di autocensura.
Proprio la Moldavia potrebbe aver dato un segnale d’allarme al KGB di Minsk: la “twitter revolution” del 2009 a Chisinau non può non essere tornata in mente agli apparatchik di regime quando, lo scorso inverno, gli utenti bielorussi del social network V-kontakte (il facebook russo) hanno lanciato il movimento “la rivoluzione attraverso le reti sociali”. Nella prima parte del 2011, ogni mercoledì pomeriggio alle 7, i giovani bielorussi si davano appuntamento tramite V-kontakte per passeggiare tranquillamente sui viali vicino a Oktobriyskaya: poi, per trenta secondi, un gruppo si fermava ed iniziava ad applaudire al vuoto, come segnale di protesta, per poi subito scomparire tra la normale cittadinanza, senza dare tempo alle forze di polizia di essere riconosciuto ed identificato. La protesta, dai caratteri quasi dadaisti, non ha mancato di suscitare la reazione del regime: i viali sono presto diventati off-limits per la circolazione dei pedoni il mercoledì pomeriggio, e un numero sempre maggiore di arresti sono stati effettuati, fino a più di 100 fermati il 15 giugno 2011. La protesta è da allora andata scemando, ma ha mostrato l’esistenza di una fetta di società bielorussa (giovane e connessa, benché limitata nel numero) che non accetta una lealtà neanche passiva al regime, ed è disposta ad esporsi, almeno relativamente, per dimostrarlo.
E’ in questo senso che va letta la nuova legge sul traffico internet: il regime bielorusso si tiene pronto ad una prova di forza, nel caso in cui la crisi economica e l’isolamento internazionale mettano in seria difficoltà il governo e spingano la gente in piazza:  allora, come avvenuto in Egitto nei giorni di piazza Tahrir, Lukashenko potrebbe tramite un pulsante scollegare l’intero traffico internet del paese. L’opposizione farebbe bene a dotarsi di qualche contromisura, prima di allora.

TURCHIA: Una tigre senza denti? Ankara verso il tracollo economico


Pubblicato su East Journal, il 10 gennaio 2012

di Eren Alp*

La palla l’ha lanciata David Goldman, con un articolo sul Middle East Quarterly in cui predice il crollo economico della Turchia nel 2012 paragonando la situazione turca a quella argentina. Secondo Goldman, “la velocità e magnitudine di una tale battuta d’arresto potrebbe facilmente erodere la capacità dell’AKP di governare sulla forza del pragmatismo piuttosto che dell’ideologia islamista, limitare la sua capacità di utilizzare incentivi economici per disinnescare il separatismo curdo e contenere l’opposizione interna, e indebolire pretesa di Ankara ad un ruolo di primo piano regionale”. In Italia, l’ha ripreso Dan Segre in suo post su Il Giornale.it.
Un commento di Eren Alp*: solo lo sviluppo della produzione industriale e la stabilità delle politiche economiche possono permettere ad Ankara di evitare il tracollo nei prossimi anni.

La crescita economica della Turchia negli ultimi dieci anni è sempre stata trainata dalle esportazioni, soprattutto verso l’Europa. Oggi, per come stanno andando le cose in Europa economicamente, tale mercato si sta prosciugando, e il Medio Oriente non lo può sostituire, soprattutto in considerazione delle turbolenze locali. Ad aggravare tale problema, molti dei prodotti realizzati per l’esportazione in Turchia in realtà si basano su componenti importati, e con la caduta del tasso di cambio della lira turca rispetto al dollaro ed euro ciò sta causando un problema serio per il deficit commerciale.
La soluzione per la Turchia dovrebbe essere l’iniziare a produrre un sempre maggior numero di questi componenti a livello locale, riducendo così i costi di fabbricazione del prodotto finale e rendendo questo più attraente per il mercato europeo in difficoltà, invertendo così la tendenza del deficit commerciale. Ciò, tuttavia, richiede un investimento serio in ricerca e sviluppo, qualcosa su cui Ankara è sempre stata molto indietro, anche se ci sono dei segnali di cambiamento.
Il tasso di crescita della Turchia per il 2012 (tra il 3 e il 4%) dovrebbe restare ancora abbastanza alto per gli standard europei, ma un rallentamento è inevitabile. L’economia ha probabilmente già iniziato a rallentare alcuni anni fa, ma la performance economica è sempre stata la chiave del successo dell’Akp (il partito di Erdogan, ndr).
Qualsiasi rallentamento economico farà sì che un buon numero dei suoi elettori se ne allontani – come anche Goldman rimarca. Il risultato è che il motore è in fiamme, per così dire, e ha bisogno di qualche manutenzione seria. Ma i meccanici sono troppo impegnati a discutere su chi di loro debba fare il lavoro.
Sarà importante vedere se ci sarà una certa continuità nelle politiche economiche del governo turco in caso di modifica dell’equilibrio in Parlamento. Uno dei maggiori problemi in Turchia, dal mio punto di vista da osservatore esterno, è che la maggior parte delle politiche sono spesso modificate o invertite completamente al cambiare del partito di governo. Ciò ha a lungo impedito all’economia turca di progredire nel modo in cui avrebbe dovuto: lo dimostra l’andamento economico nel corso dell’ultimo decennio, quando non ci sono stati importanti cambiamenti di governo, e l’economia ne ha beneficiato. Tra qualche anno potremo giudicare.
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*Eren Alp, cittadino turco-canadese, ha una laurea in economia all’università di McMaster (Ontario, Canada) e un master in Studi Europei al Collegio d’Europa, campus di Natolin. Oggi risiede a Toronto.
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intervista, traduzione e introduzione di Davide Denti

UCRAINA: Yanukovich rimandato a febbraio, slitta l’accordo con l’Unione Europea


Rimandato agli esami di riparazione, come uno scolaretto discolo. Il vertice tra l’Unione Europea e l’Ucraina dello scorso 19 dicembre si è concluso senza la firma attesa all’accordo di associazione – nonostante Barroso e Van Rompuy, da Kiev, ne abbiano annunciato la conclusione del negoziato. Sulla scelta di Bruxelles ha pesato fortemente, oltre al fatto tecnico che il testo non era ancora formalmente pronto, il caso Tymoshenko, con l’ex premier ancora in prigione, e anzi da poco trasferita al carcere di Kharkiv, nell’est del paese.
Nelle parole di van Rompuy, “la messa in atto dell’accordo dipenderà dal fatto che l’Ucraina onori lo stato di diritto e gli altri valori fondamentali”: per verificare ciò, l’ultima opportunità lasciata a Yanukovich sono le elezioni parlamentari del 1° febbraio. Solo se sarà soddisfatta della loro conduzione l’Unione siglerà l’accordo, che contiene anche le norme relative all’istituzione di una zona di libero scambio approfondito (Deep and Comprehensive Free Trade Agreement, DCFTA). Una data provvisoria è stata individuata per il 15 febbraio, e solo la versione inglese dell’accordo dovrebbe fare fede.
E, anziché la tanto attesa liberalizzazione dei visti, che Yanukovich aveva promesso entro fine 2011 (ma un termine più plausibile potrebbe essere il 2015), i leader europei hanno offerto un emendamento all’accordo di facilitazione del 2007 (Visa Facilitation Agreement), con l’introduzione di una procedura semplificata per studenti, membri di Ong e detentori di passaporti ufficiali.
Anche la questione di una, seppur lontana, prospettiva di adesione per l’Ucraina resta aperta: il comunicato congiunto afferma “che l’Ucraina è un paese europeo, con una identità europea, che condivide una storia e valori comuni con i paesi dell’Unione Europea”, e l’Unione “riconosce le aspirazioni europee dell’Ucraina e dà il benvenuto alla sua scelta europea”. L’Ucraina sarebbe così (come è d’altronde ovvio) riconosciuta “paese europeo” ai sensi dell’art.49 del Trattato UE, ma restano tutte da verificare le altre condizioni di adesione, relative a mercato e democrazia così come riportato dall’art.2 e dai criteri di Copenhagen.
Così, come per Belgrado, di cui il riconoscimento dello status di candidato all’adesione è stato rimandato a marzo dal Consiglio Europeo per via della questione del Kosovo, anche l’associazione con Kiev è rimandata di qualche mese. Sperando che il (breve) lasso di tempo riporti Yanukovich ed i suoi a più miti consigli.

POLONIA: Sabato di sangue a Varsavia

Pubblicato su EastJournal il 14 novembre 2011
Sabato di sangue a Varsavia; mentre tutto il paese celebrava la Giornata dell’Indipendenza, così come in altre nazioni si celebra il giorno dell’Armistizio del 1918, estremisti di destra e di sinistra si davano appuntamento per una giornata di violenza all’ombra del Palazzo della Cultura.
Da una parte, la Gioventù Pan-polacca (Młodzież Wszechpolska) e il Campo Nazional-radicale (Obóz Narodowo-Radykalny), dall’altro, il raggruppamento antifascista “Accordo 11 Novembre”, che include anarchici, femministe e gruppi ebraici progressisti. I due campi si erano già scontrati violentemente un anno fa, quando 33 persone erano state arrestate; per il 2011, l’ambasciata americana aveva raccomandato ai suoi cittadini di evitare l’area delle dimostrazioni (1).
La polizia si attendeva l’afflusso di circa 20.000 manifestanti, gli organizzatori dei due campi puntavano alla soglia dei 60.000. Tra questi, grazie allo spazio Schengen, gruppi nazionalisti dalla Gran Bretagna, Serbia e Repubblica Ceca, e gruppi antifascisti dalla Germania e dal Belgio (2).
I gruppi nazionalisti avevano annunciato una “Marcia dell’Indipendenza” attraverso il centro di Varsavia, e i militanti antifascisti avevano indicato la volontà di impedirla. Già da un paio di settimane, la città era tappezzata dai manifesti delle due opposte fazioni.
Gli scontri sono avvenuti principalmente tra le 15 e le 16 nell’area di plac Konstytucij, a sud del centro. I nazionalisti hanno iniziato a lanciare bottiglie e cassonetti contro le forze di polizia, che hanno risposto con lacrimogeni e cannoni ad acqua. I militanti antifascisti hanno quindi bloccato l’uscita dei nazionalisti dalla piazza verso il centro, mentre la polizia cercava di tenere separati i due campi. I nazionalisti hanno ripiegato verso sud, mentre la polizia ha intimato agli antifascisti di sgomberare la piazza. Verso le 17, diversi gruppi sparsi di nazionalisti si sono scontrati con la polizia su ulica Emilii Platter, all’ombra del Palac Kultur. Anche i giornalisti sono stati presi di mira: una camionetta di TVN è stata incendiata. (3) (4)
Al termine della giornata, si contano 210 fermati, di cui la metà stranieri; 40 poliziotti feriti; e 29 manifestanti ricoverati in pronto soccorso.