venerdì 30 settembre 2011

Diritti umani e democrazie mediterranee: proposte per due passi concreti

Pubblicato su East Journal, 1° ottobre 2011

La proposta di adesione alla Convenzione-Quadro del Consiglio d’Europa per la protezione delle minoranze nazionali, e uno statuto di osservatore e di associazione al Consiglio d’Europa: due passi necessari per ancorare la democratizzazione dei nuovi regimi arabi

Qualche giorno fa ho aperto il dibattito proponendo l’apertura del Consiglio d’Europa e della sua Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU) ad Israele ed alle nuove democrazie mediterranee in nascita. In effetti la proposta è difficile, e difficilmente sarà presa in considerazione, poiché necessita di una revisione dei trattati del Consiglio d’Europa che potrebbe dare adito agli stati più scontenti della giurisprudenza della Corte di Strasburgo (Russia, ma anche Regno Unito) di chiedere ulteriori modifiche in senso restrittivo. Avanzo allora un altro paio di proposte, fattibili qui e ora.

-          L’adesione alla Convenzione-Quadro del Consiglio d’Europa per la protezione delle minoranze nazionali
A differenza della CEDU, la Convenzione-Quadro del 1995 (in vigore dal 1998) è un trattato aperto tanto agli stati membri del Consiglio d’Europa quanto ad altri stati non membri. L’adesione degli stati mediterranei darebbe un importante segnale perché anche quegli stati europei che ancora non l’hanno ratificata (Belgio, Grecia, Islanda) o nemmeno firmata (Francia, Turchia) lo facciano al più presto.
La Convenzione-Quadro è uno strumento di diritto internazionale più soft rispetto alla CEDU: non è direttamente applicabile nelle corti nazionali, e contiene degli impegni abbastanza vaghi per gli stati parte (ad esempio, non dà una definizione di minoranza nazionale). Dall’altra parte, essa contiene il decalogo dei diritti fondamentali della CEDU, meccanismo pensato già dall’inizio per gli stati post-socialisti dell’Europa orientale che ancora non erano membri del Consiglio d’Europa. Oltre alle libertà linguistiche (nomi, toponimi, uso della lingua minoritaria con la pubblica amministrazione) ed educative (libertà d’insegnamento della e nella lingua minoritaria), la Convenzione-quadro prevede il divieto di assimilazione forzata e l’obbligo di non limitare i contatti transfrontalieri.
Il meccanismo di controllo della Convenzione, relativamente complesso e di tipo diplomatico,  prevede dei rapporti nazionali e tematici periodici, redatti da un comitato di esperti con la possibilità di compiere missioni sul campo, e seguito da eventuali commenti dello stato in oggetto: un processo di naming & shaming che può condurre ad un miglioramento della situazione dei diritti delle minoranze.

Lo statuto di osservatore e di associazione al Consiglio d’Europa
Una seconda modalità, fattibile qui e ora, per sostenere la democratizzazione dei regimi mediterranei, è quella di offrire uno statuto di osservatore, e in seguito di stato associato, al Consiglio d’Europa. Lo statuto di associazione era stato impiegato negli anni ’50 in relazione alla Saar, territorio sotto tutela internazionale, e alla Germania Ovest uscita dall’occupazione alleata, per poi entrare in disuso, mentre lo statuto di osservatore è concesso oggi a diversi paesi extraeuropei. Gli stati osservatori dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (Israele, dal 1957, e il Marocco, dal 2011) potrebbero essere i primi ad ottenere lo statuto di associazione, seguiti poi dagli altri regimi, che potrebbero passare attraverso lo stesso statuto di osservatore. Tale riconoscimento non garantirebbe la possibilità di aderire alla CEDU, ma potrebbe essere utile come primo passo, permettendo la partecipazione ai lavori del Consiglio, con uno scambio di buone pratiche e una socializzazione dei delegati di tali stati al quadro europeo di promozione della democrazia e dei diritti umani. La stessa Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, nella sua riflessione del 2008 sullo statuto di stato osservatore (para.12), ha proposto che a tale statuto vengano fatti corrispondere impegni precisi, che lo stato osservatore si impegnerebbe a rispettare. Una tale prospettiva potrebbe costituire l’inizio di una riflessione su uno statuto di associazione al Consiglio d’Europa, che potrebbe implicare l’impegno degli stati extraeuropei associati al rispetto dei diritti umani fondamentali quali indicati nella CEDU (ad esempio attraverso la moratoria o l’abolizione della pena di morte in tempo di pace), anche senza che questa assuma valore legale nei loro confronti.

Con la proposta di adesione dei nuovi regimi mediterranei alla Convenzione-Quadro del Consiglio d’Europa per la protezione delle minoranze nazionali, e con il loro ingresso come osservatori, e in seguito associati, al Consiglio d’Europa, gli stati europei possono dare l’avvio ad un processo di ancoraggio alla democrazia e al rispetto dei diritti umani, che garantisca stabilità nel vicinato sud e prosperità nei suoi rapporti con l’Unione. Serve però agire ora: prima che l’inverno cali sulle primavere arabe, e prima che una nuova emergenza devii di nuovo l’attenzione delle diplomazie internazionali.

ITALIA-UE, serve una svegliata



Istituzioni sovranazionali in comune con i paesi del Mediterraneo, una nuova Convenzione per l’approfondimento dell’Unione, ed un bilancio europeo più consistente. E’ il contenuto della “Relazione programmatica sulla partecipazione dell’Italia all’Unione Europea”, licenziata il 7 settembre 2011 dalla XIV commissione della Camera dei Deputati. Ma i nostri deputati hanno la minima idea di cosa votano? Se fosse vero bisognerebbe farci le prime pagine dei giornali: il nostro paese ha finalmente una politica europea! Grattando sotto la superficie, purtroppo, la situazione è ben meno rosea. 

A livello formale, la relazione della XIV Commissione è un bordello: non c’è alcuna distinzione tra clausole introduttive e clausole operative, ma il tutto si risolve in un mix di raccomandazioni, presunti fatti, e vaghi impegni al governo. A livello sostanziale, il documento della Camera riprende alcune delle proposte del CIME nel suo documento “Verso il 2014” di febbraio 2011 e nel rapporto “Per una comunità euromediterranea” di maggio 2011. Le tre soluzioni che propone non hanno niente di nuovo, e finiscono per essere soluzioni sbagliate. Mettere insieme una Convenzione è una soluzione vecchia e logora: quella di Nizza ha partorito un mostro giuridico, la Carta UE dei Diritti Umani, e quella per il Trattato Costituzionale ha lavorato a vuoto, rendendo necessario ripescare il contenuto della Costituzione dal rigetto popolare attraverso il trattato di Lisbona. Il progetto di CECA euro-mediterranea, in secondo luogo, è un’ottima idea con nessuna possibilità di essere messa in atto; ancora, una soluzione vecchia, che ripesca nel repertorio delle “success story” continentali senza tenere in conto la situazione politica attuale. Infine, l’invito ad espandere il bilancio dell’Unione, più che condivisibile, si scontra contro il muro di gomma dell’azione/inazione del governo. 

Perché nel nostro paese, dal 15 novembre 2010 al 27 luglio 2011, il posto di Ministro per le Politiche Europee è rimasto vacante per ben 8 mesi, a seguito delle dimissioni di Andrea Ronchi. Perché la Legge Comunitaria 2011 non ha ancora passato l’approvazione della Camera dove la maggioranza, su questi temi inattuali, latita. Perché Franco Frattini, il nostro Ministro degli Esteri, sembra avere altre priorità, e ancora oggi risulta tra gli assenti al vertice di Varsavia di questa settimana sul Partenariato Orientale. Perché, infine, non è passata una settimana e la relazione della Camera è già carta straccia: l’Italia si è accodata, assieme ad altri, ai vertici di Francia, Germania e Regno Unito nel chiedere alla Commissione che il bilancio 2014-2020 dell’Unione sia il più compresso possibile, tutto il contrario di quanto lo impegnava a fare la Relazione della Camera. 

Secondo Niccolò Rinaldi (MEP IdV ALDE), in Europa “oggi anche la Polonia sa far valere i propri interessi meglio di noi”. Sarebbe invece ora di fare sul serio: nel 2014 l’Italia avrà di nuovo la Presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea, e non è un appuntamento che si possa improvvisare. La Polonia oggi nella stessa funzione se la sta cavando abbastanza bene, grazie ad una preparazione che viene da lontano. Se l’Italia dovesse restare nella stagnazione di oggi fino al 2013 (se non oltre!), non avrebbe tempo per prepararsi in maniera adeguata. Sarebbe un’altra opportunità persa, forse l’ultima: dal 2020 il sistema probabilmente cambierà, e allora non ci saranno più vetrine per farsi valere in Europa.

UE-GRECIA, era meglio senza?

Pubblicato su East Journal, 28 settembre 2011

DA BRUXELLES - 1981-2011, da trent’anni la Grecia è membro della CEE e dell’UE. Un percorso affrettato, che ha lasciato troppe questioni in sospeso: da Cipro alla Macedonia, alle mancanze della burocrazia e dello stato di diritto. Un “ventre molle” che oggi minaccia l’intera Unione.

Grecia e Turchia, un cammino parallelo
Grecia e Turchia iniziano in parallelo il loro cammino verso l’integrazione europea: nel 1961, appena quattro anni dopo la firma del Trattato di Roma che istituisce la CEE, il Protocollo di Atene segna l’associazione della Grecia alla comunità; poco dopo, il protocollo di Ankara (1963) fa lo stesso per la Turchia. Entrambi i protocolli di associazione hanno un chiaro valore di pre-adesione; i due paesi mediterranei sono considerati di diritto membri della comunità europea che si sta formando.
Tuttavia i rapporti di associazione si raffreddano presto: la Grecia cade nell’instabilità politica a partire dal 1965, con un regime militare che si installa nel 1967; la situazione si disgela solo negli anni ’70: assieme alla Grecia, anche Spagna e Portogallo tornano ai governi civili tra il 1974 e il 1976. Per i tre paesi mediterranei, l’adesione alla CEE rappresenta anche una prospettiva di ancoraggio democratico. La Grecia viene subito ammessa nella Comunità, nel 1981, mentre Spagna e Portogallo devono attendere un periodo di transizione, fino al 1986: Mitterand si era inizialmente opposto, per timore di un annacquamento della CEE. La Turchia, intanto, rimaneva in lista d’attesa.

La questione (irrisolta) di Cipro
Nel frattempo, gli stessi anni vedono incancrenirsi la questione di Cipro: sull’isola, il regime militare greco aveva spinto per un golpe che portasse all’unificazione (“enosis”) con la penisola ellenica. Tale mossa aveva provocato l’intervento in armi della Turchia, una delle potenze garanti di Cipro secondo il trattato di Zurigo del 1959. Anche a seguito della caduta del regime greco e del ritorno di un governo civile ad Atene, Ankara aveva continuato l’occupazione della parte nord dell’isola. Atene nel frattempo continua a sostenere le autorità greco-cipriote.
Dopo un decennio di tranquillità negli anni ’80, i problemi della Grecia riappaiono negli anni ’90 come problemi dell’UE. In primis, Cipro: nel round di negoziati verso l’adesione dei paesi dell’Europa centro-orientale all’Unione, la Grecia impone che sia inserita anche Cipro come contropartita per non bloccare i paesi post-socialisti. Cipro sale così sul treno dell’integrazione europea, senza che alcuno dei suoi problemi politici, economici e sociali sia stato risolto. Arraffazzonato in tutta fretta il piano Annan, questo viene silurato dalla scelta di tenere il referendum sulla riunificazione dopo l’ingresso nell’UE, anziché prima: così che i greco-ciprioti votano no, ed oggi dalla posizione di forza di paese membro possono mettere il veto ad ogni ulteriore negoziato di adesione della Turchia, che si sta stufando di attendere.

Il veto sulla Macedonia
In secondo luogo, la Macedonia: a partire dall’indipendenza, neanche troppo voluta, della repubblica jugoslava di Macedonia nel 1995, Atene si oppone in ogni sede a che il nuovo stato utilizzi il nome di Macedonia e si riallacci alla tradizione ellenistica di Alessandro Magno: secondo i governanti greci, si tratterebbe di un attentato alla tradizione greca da parte della popolazione slava e albanese della repubblica di Skopje, oltre che di una possibile futura rivendicazione territoriale sui più ampi territori della Macedonia storica. E così, Skopje deve farsi chiamare FYROM all’ONU, ha il suo ingresso nella NATO bloccato sin dal 2009, e i negoziati per l’ingresso nell’UE non sono mai iniziati, seppure l’Unione abbia concesso nel 2005 al paese lo status di candidato. Il tutto, per l’impuntatura di Atene.

Trattamento disumano ai richiedenti asilo
Ma non sono solo i nodi geopolitici a venire al pettine: con la sentenza M.S.S. contro Belgio e Grecia, del 2009, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha condannato i due stati per il trattamento disumano e degradante subito abitualmente dai richiedenti asilo nel paese ellenico. Così è stata messa la parola fine alla presunzione di parità degli standard di trattamento di rifugiati e richiedenti asilo nei paesi Schengen: secondo il regolamento UE “Dublino-2”, infatti, il primo paese di ingresso di un richiedente asilo è il paese competente a trattarne la domanda, e tale persona può esservi rispedita se viene trovata altrove.

Un’economia alla sfascio (dell’euro)
Infine, e questione non da poco, i conti economici: la Grecia è oggi il paese dell’UE a maggior rischio di bancarotta. Entrata nella prima fase dell’euro per il rotto della cuffia nel 2002 (secondo alcuni solo grazie ad aver truccato i conti), Atene rischia oggi di far fallire l’intera moneta unica a causa dell’enorme debito pubblico accumulato, e tenuto nascosto per anni dai governi del partito Nuova Democrazia.
Cipro, Macedonia, euro e rifugiati. A vedere i grattacapi che Atene dà oggi all’Unione, viene da chiedersi: non sarebbe stato meglio fare senza?

mercoledì 21 settembre 2011

Fate entrare le democrazie mediterranee nel Consiglio d’Europa

 Pubblicato il 17 settembre 2011 su East Journal

UE: come reagire alla primavera araba e al riconoscimento della Palestina?
Le rivolte democratiche nei paesi arabi sono state seguite da uno appello alla creatività, da parte dell’Europa, per sostenere e ancorare alla democrazia e ai diritti umani i nuovi regimi della sponda sud. L’UE ha risposto in maniera sostanzialmente reattiva, e nonostante i risultati della guerra in Libia, la sua immagine è rimasta appannata. Il mese di settembre, con la sessione ONU che valuterà del riconoscimento internazionale dello stato di Palestina, pone una nuova sfida alla diplomazia europea, che ancora una volta appare presa in contropiede e senza una posizione comune.
Già in febbraio, Bill Emmott aveva fatto appello perché l’Unione Europea aprisse le sue porte alle nuove democrazie mediterranee, idea ripresa su Libération per quanto riguarda la Tunisia. Ma un tale salto in avanti, dall’attuale labile rapporto di vicinato ad una ferma prospettiva di allargamento,  appare irrealistico nel breve periodo.
Una simile prospettiva di allargamento dell’UE a sud-sud-est, a fini di ancoraggio democratico, era già stata proposta dal Partito Radicale, nel 1988, come percorso di risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Rilanciata da Berlusconi in una sua captatio benevolentiae a Gerusalemme nel 2010, il tema è rimasto sottotraccia nella maggior parte delle opinioni pubbliche europee, e non ha d’altra parte sortito alcun passo concreto da parte del governo di Tel Aviv.
Ma se l’adesione all’UE rappresenta un passo troppo lungo, una opportunità più concreta è fornita da quell’altra organizzazione internazionale, la cui creazione ha preceduta di un decennio la CEE, e che detiene i diritti d’autore sulla bandiera blu a dodici stelle. Si tratta del meno conosciuto Consiglio d’Europa, fondato nel 1949 e che raggruppa oggi 47 stati, da Finisterre a Vladivostock, inclusi tutti gli stati post-sovietici con la sola eccezione della Bielorussia autoritaria. Il Consiglio d’Europa ha fatto della protezione dei diritti umani la sua cifra identitaria, attraverso la firma obbligatoria per i suoi stati membri della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Il rispetto della Convenzione è garantito dalla Corte CEDU di Strasburgo, a cui ciascuno degli 800 milioni di cittadini degli stati membri (ma anche qualunque straniero sottoposto alla loro giurisdizione) possono fare direttamente appello, una volta terminati i possibili ricorsi interni.
Ma come potrebbe l’UE spingere all’adesione al Consiglio d’Europa i propri paesi vicini? In effetti, l’Unione ha in atto con la maggior parte dei Paesi Partner Mediterranei (PPM) degli Accordi Euro-Mediterranei di Associazione (AA), entrati in vigore in vari momenti tra il 1998 (Tunisia) e il 2006 (Libano); solo Libia e Siria ne sono rimaste finora sprovviste. Tali accordi riportano una clausola tipica di “elemento essenziale”, all’art.2:
Relations between the Parties, as well as all the provisions of this Agreement itself, shall be based on respect of democratic principles and fundamental human rights as set out in the Universal Declaration on Human Rights, which guides their internal and international policy and constitutes an essential element of this Agreement. [Accordo UE-Libano]
Il riferimento alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, inserito negli accordi più recenti come chiave di interpretazione di ciò che si intende per rispetto dei diritti umani e dei principi democratici, rende possibile un legame con il Consiglio d’Europa e la Convenzione Europea dei Diritti Umani. Quest’ultima infatti, come espresso da Pierre-Henri Teitgen (Au sources de la Cour et de la Convention européenne des droits de l’homme, coll. Voix de la cité, Confluences, Bordeaux 2000), si proponeva di riprendere le garanzie più fondamentali tra quelle riportate nella Dichiarazione ONU, sottoponendole ad un controllo giurisdizionale che potesse nel tempo portare alla creazione di un sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo.

Opportunità dell’allargamento del Consiglio d’Europa
Il Consiglio d’Europa offre maggiori garanzie di flessibilità, rispetto all’UE, per una progressiva integrazione di Israele e delle nuove democrazie mediterranee:
1-      In quanto organizzazione specializzata in un campo specifico, offre minori resistenze da parte di stati già membri che potrebbero avere forti remore su altri dossier di competenza dell’UE (politiche agricole, etc);
2-      Il Consiglio d’Europa ha, sin dal suo inizio al congresso dell’Aja del 1948, spinto per una versione estesa del concetto di Europa, invitando al dibattito da subito la Russia e la Turchia (ma anche la Gran Bretagna), ed allargandosi successivamente fino al Caucaso meridionale; un eventuale allargamento ad Israele e alle altre democrazie mediterranee sarebbe fattibile, per quanto innovativo;
3-      La partecipazione di Israele e delle altre democrazie mediterranee alla CEDU, col suo focus privilegiato sui diritti umani, potrebbe costituire un importante test della volontà di tali governi di garantire lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali ai propri cittadini e agli stranieri sotto la propria giurisdizione;
4-      Con la progressiva integrazione tra i sistemi UE e del Consiglio d’Europa di salvaguardia dei diritti umani (l’UE ha in corso negoziati con il Consiglio d’Europa per accedere alla Convenzione, così come stabilito dal Trattato di Lisbona), l’adesione al sistema di Strasburgo potrebbe divenire una precondizione, da parte dell’Unione, per la concessione dello Status Avanzato nei suoi rapporti di vicinato con i paesi mediterranei; tale status è oggi concesso a Marocco, Giordania e Israele, pur con ben pochi contenuti sostanziali.
5-      Tutti gli attuali stati membri del Consiglio d’Europa intrattengono già relazioni diplomatiche con Israele

Ostacoli
Ciononostante, diversi ostacoli si presentano, ad una prima analisi:
1-      Il sistema di Strasburgo è già ora sotto stress, per mancanza di risorse e di volontà degli stati di far rispettare le sentenze CEDU da parte dei giudici interni. Le recenti proposte di legge, in Gran Bretagna e in Russia, volte ad introdurre un controllo successivo di costituzionalità delle sentenze CEDU, costituiscono un segnale preoccupante. Inoltre, le scarse risorse disponibili rendono grave il carico di arretrati da smaltire.
2-       La Convenzione include una serie di diritti umani e libertà fondamentali inderogabili (diritto alla vita, interdizione della tortura, della pena di morte, diritto ad un equo processo, rispetto della vita privata e familiare), a cui si aggiungono tramite Protocolli ulteriori diritti di successiva codificazione, quali il diritto alla proprietà (art. 1 del 1° protocollo). Tali diritti potrebbero far sorgere problemi particolari per Israele. La giurisprudenza successiva al caso Loizidou v. Turchia (1996), relativo ai beni dei cittadini greco-ciprioti nel territorio della Repubblica Turca di Cipro Nord, potrebbe rappresentare un precedente per la richiesta di restituzione o compensazione da parte delle centinaia di migliaia di palestinesi espulsi da Israele o dai territori occupati.
3-      Lo stabilimento di relazioni diplomatiche con Israele potrebbe divenire necessario per l’adesione al sistema di Strasburgo da parte delle nuove democrazie arabe; allo stesso tempo, Israele potrebbe verosimilmente non volersi sottoporre ad uno scrutinio sovranazionale della propria legislazione interna, fintanto che permangono le condizioni per cui lo stato ebraico si considera in uno stato di guerra.

Raccomandazioni
Perché il rispetto dei diritti umani divenga un cardine della politica estera di vicinato dell’Unione Europea, e perché Israele e le nuove democrazie mediterranee possano integrarsi nel Consiglio d’Europa, è fondamentale che alcuni passi siano presi.
1-      Gli stati membri del Consiglio d’Europa, inclusi Russia, Regno Unito e Turchia, devono impegnarsi a garantire alla Corte di Strasburgo adeguate risorse per lo smaltimento del carico di casi arretrati, e una efficace esecuzione delle sentenze nel diritto interno. L’UE, che diverrà parte della Convenzione nel prossimo futuro, deve fare pressione, sui suoi stati membri e candidati, affinché tali impegni siano portati avanti.
2-      La Politica Europea di Vicinato dell’UE deve prendere sul serio la clausola di “elemento essenziale” relativa al rispetto dei principi democratici e dei diritti umani fondamentali, presente in pressoché tutti gli Accordi di Associazione tra l’Unione e i paesi mediterranei. Ciò può avvenire soltanto attraverso la spinta per l’adesione di tali paesi al Consiglio d’Europa, come precondizione per uno Status Avanzato nei rapporti di vicinato europeo.
3-      L’adesione di Israele e delle altre democrazie mediterranee alla Convenzione CEDU potrebbe limitarsi in un primo momento ai diritti e libertà fondamentali, tralasciando le ulteriori clausole in grado di costituire una pietra d’inciampo, quali l’art.1 del 1° Protocollo sul diritto alla proprietà.
4-      Per evitare dilemmi di azione collettiva, l’adesione di Israele e degli altri paesi democratici mediterranei (Palestina inclusa) al Consiglio d’Europa dovrebbe far parte di un pacchetto globale, con una chiara road-map, di risoluzione del conflitto arabo-israeliano. Le primavere arabe rappresentano una importante opportunità di rilancio del processo di pace, che non deve essere lasciata sfuggire.

Conclusioni
Una richiesta da parte dell’UE di entrare a far parte del Consiglio d’Europa e di mettere in pratica la Convenzione Europea dei Diritti Umani costituirebbe così un rafforzamento della politica di condizionalità, dando finalmente significato alla clausola di elemento essenziale degli accordi di associazione. Le relazioni dell’UE con i vari dittatori, da Ben Ali a Mubarak, ha già fatto troppi danni all’immagine e alla credibilità del soft power continentale. Chiedendo ai paesi vicini di entrare a far parte del club di Strasburgo, l’UE dimostrerebbe di prendere sul serio la necessità di garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali nei paesi vicini.

UE: Euro-crisi, don't let slip the dogs of war


«Stavamo parlando della crisi in Eurolandia. Mi ha detto: ‘Sai, dopo tutte queste scosse politiche, crisi economiche, è molto raro che nei prossimi 10 anni potremo evitare una guerra ‘. Una guerra,  signore e signori. Sto seriamente pensando di chiedere una Green Card per gli Stati Uniti per i miei figli».
Così Jacek Rostowski, ministro delle finanze della Polonia, paese presidente di turno del Consiglio dell’Unione Europea, di fronte al Parlamento Europeo, richiamando un dialogo con un amico banchiere. Rostoweski commentava così un rapporto della banca svizzera UBS sui costi di un eventuale collasso della moneta unica, secondo il quale, storicamente, le unioni monetarie non si spezzano senza una guerra civile o una reazione autoritaria.
Rostowski voleva forse ottenere la prima pagina, e ci è riuscito: la notizia è rimbalzata fino sul Bangkok Post. Un ultimo appello, ai responsabili europei, perché si accordino su una governance economica sovranazionale dell’Unione su cui ormai quasi tutti sembrano aver raggiunto un consenso.
Parole che ad un osservatore occidentale sembrano fuori luogo: una guerra? Nel nostro continente? Tra paesi ormai civili e pacificati? Be’, non è un caso che una prospettiva simile – tralasciando per un momento il rapporto di UBS – venga dalla bocca di un politico polacco.
La possibilità di ritrovarsi coinvolti in una guerra nel medio periodo – per intenderci, nell’arco della nostra vita; nel lungo periodo, come diceva Keynes, saremo tutti morti – non è assente dalla mentalità polacca. Sarà forse per colpa della storia o della geografia, ma ricordo di averne discusso esattamente un anno fa con il mio amico Konrad, di Lodz. Va bene la garanzia della NATO, va bene l’UE, ma la Polonia ha ancora nel subconscio l’esperienza delle tre spartizioni (1772, 1793, 1795), la linea del fronte russo-prussiano nella grande guerra, il patto Molotov-Ribbentrop del 1939,  fino alla dichiarazione di stato di guerra e legge marziale del 1981. Il progetto di Bush di scudo spaziale è stato lungamente un soggetto di dibattito politico a Varsavia negli ultimi anni, e ancora oggi una delle tre priorità individuate per la presidenza polacca del Consiglio UE era la politica di Difesa comune.
Si capisce allora perché Rostowski abbia voluto utilizzare il termine “guerra” per sottolineare la gravità della situazione attuale e i rischi della crisi monetaria. Se un politico dell’Europa occidentale si sarebbe limitato a parlare di crisi economica, disoccupazione, recessione, per un politico polacco la rimessa in discussione del processo di integrazione porta il volto ben più concreto e più volte conosciuto del conflitto armato.
E allora, incamminiamoci verso l’unione fiscale e, come suggeriva Shakespeare, teniamo al laccio i mastini della guerra.

lunedì 12 settembre 2011

CROATIA-ITALY. Memory reconciled. The Presidents' Speech.



"Today, the Croatian and Italian peoples have a common future in a Europe united on a democratic basis. Soon there will be no borders between our two countries. "It’s September 3, 2011, and the heads of state of Italy and Croatia, Giorgio Napolitano and Ivo Josipovic, celebrate with a common discourse, read in both languages, the end of the negotiations for the accession of Croatia to the European Union. The scenario is the Roman Arena in Pula, Istria, now an officially bilingual (Croatian and Italian) municipality in Croatia.

The speech of the two presidents recalls both the historical chapters of the dispute between the two countries: the fascist occupation and attempts at forced Italianization, as well as the Yugoslav partisan vendettas and the tragedy of the ‘foibe’, sinkholes: "We condemn once again the totalitarian ideologies that have suppressed cruelly freedoms and trampled upon the individual's right to be different, by birth or by choice. "

It is not by chance that such a mutual recognition is possible only today. By one side stands an Italian President who comes from the best part of the history of the Italian Communist Party, far from any claim of the nationalist right, but also skeptical about the uncritical brotherhood of most of his own former party with the League of Communists of Yugoslavia. By the other side stands a Croatian president that, although much younger, has gone through the same path in the reformist faction of the Croatian communists, working for their transformation in the current Social Democratic Party, and after the independence remained for a decade out of politics, away from the sirens of the authoritarian nationalism of the "Father of the Nation" Tudjman.

"We cultivate the memory of the victims and we are close to the pain of the survivors. In forgiving one another our wrongdoings, let us turn our gaze to the future ". As Marzio Breda wrote on Corriere, the two presidents have shown the courage to say together important words, whose future credibility is based on the open recognition of the reciprocal wrongs of the past.
Actions like these create commonalities, and cut the grass under the feet of those political entrepreneurs in history and fear, that live upon the exploitation of a memory still brooding like embers. In 2013, Croatia will join the EU, and exactly in that moment the attention will have to remain high, so that the nationalist discourses in the two countries do not regain a foothold. Just as happened in the case of the countries of Central and Eastern Europe, it is after the EU accession that political actors, on both sides of the border, might find in Europe a new arena, where to use for political purposes a memory not yet reconciled and ready to be revived. Likewise happened for the Germans expelled from Poland and Bohemia, likewise for the Hungarian minorities in Slovakia and Romania.

The fundamental error in these cases is to apply to yesterday the categories of today, asking for an impossible reparation from the children and grandchildren of the leaders of that time. Only a reconciliation based on the mutual recognition of the wrongdoings, the impossibility to repair them, and the will to live together in a "common European home", to use the
definition of Gorbachev (yet another communist!) recalled by Napolitano and Josipovic, will ensure the common life of the different peoples of the Adriatic basin within the European Union, without turning this last into a new arena of confrontation. In this sense, the words of Josipovic and Napolitano have  shown the way, as two presidents should do, "in the name of our states and our peoples."

CROAZIA: La memoria riconciliata. Il discorso dei due presidenti

 
Oggi i popoli croato e italiano hanno un futuro comune nell’Europa unita su basi democratiche. Fra breve non vi saranno confini fra i nostri due Paesi.” E’ il 3 settembre 2011, e così i presidenti di Italia e Croazia, Giorgio Napolitano e Ivo Josipovic, celebrano con un discorso comune, letto nelle due lingue, il termine dei negoziati per l’adesione della Croazia all’Unione Europa. Lo scenario è l’Arena romana della città di Pola, in Istria, oggi uno dei comuni croati ufficialmente bilingui.
Il discorso dei due presidenti richiama entrambi i capitoli del contenzioso storico tra i due paesi: l’occupazione fascista e i tentativi di italianizzazione forzata, così come le vendette partigiane jugoslave e la tragedia delle foibe: “Condanniamo ancora una volta le ideologie totalitarie che hanno soppresso crudelmente la libertà e conculcato il diritto dell’individuo di essere diverso, per nascita o per scelta.”
Non sarà un caso, che solo oggi un tale reciproco riconoscimento sia possibile: da parte di un presidente italiano che viene dalla migliore storia del PCI, lontano da ogni rivendicazione nazionalista della destra, ma anche scettico verso la fratellanza acritica di buona parte del suo stesso partito verso la Lega dei Comunisti Jugoslavi; e di un presidente croato che, per quanto ben più giovane, ha percorso lo stesso cammino nella fazione riformista dei comunisti croati, lavorando per la sua trasformazione nell’attuale partito socialdemocratico, e dopo l’indipendenza restando per un decennio lontano dalla politica e dalle sirene del nazionalismo autoritario del “padre della patria” croata Tudjman.
Coltiviamo la memoria delle vittime e siamo vicini al dolore dei sopravvissuti. Nel perdonarci reciprocamente il male commesso, volgiamo il nostro sguardo all’avvenire”. Come scrive Marzio Breda sul Corriere, hanno dimostrato coraggio i due presidenti a pronunciare insieme parole importanti, la cui credibilità futura si basa sull’aperto riconoscimento dei torti reciproci del passato.
Azioni come queste creano comunanza, e tagliano l’erba sotto i piedi di quegli imprenditori politici della storia e della paura che vivono dello sfruttamento di una memoria che cova ancora come brace. Nel 2013 la Croazia entrerà a far parte dell’Unione Europea, e sarà allora che l’attenzione dovrà restare alta, affinché i discorsi nazionalisti nei due paesi non riprendano piede. Così come accaduto nel caso dei paesi dell’Europa centro-orientale, è dopo l’adesione che gli attori politici, da una parte e dall’altra delle frontiere, possono trovare una nuova arena a livello europeo, in cui sfruttare a fini politici (carriera, consenso) una memoria non ancora riconciliata e pronta ad essere richiamata in vita. Così è stato per i tedeschi espulsi dalla Polonia e dalla Boemia, così per le minoranze ungheresi in Slovacchia e Romania.
L’errore fondamentale, in questi casi, è di applicare allo ieri le categorie dell’oggi, chiedendo un’impossibile riparazione ai figli e nipoti dei responsabili di allora. Solo una riconciliazione basata sul reciproco riconoscimento dei torti, sull’impossibilità di ripararli, e sulla volontà di vivere insieme in una “casa comune europea”, per utilizzare la definizione di Gorbacev (un altro comunista!) ripresa da Napolitano e Josipovic, potrà garantire la vita comune dei diversi popoli del bacino Adriatico all’interno dell’Unione Europea, senza che questa si trasformi in una nuova arena di scontro. In questo senso, le parole di Napolitano e Josipovic indicano la strada, come due Presidenti dovrebbero fare, “in nome dei nostri Stati e dei nostri popoli”.

venerdì 2 settembre 2011

UE: i benefici dell'allargamento per l'Europa centro-orientale

Scritto per East Journal, 1° settembre 2011; ripreso sulla prima pagina di PaperBlog

“Dubcek direbbe che poteva andare diversamente; che almeno lui ha fatto in tempo a vedere la differenza a volte astratta tra un regime imposto con i carri armati ed uno imposto più sottilmente col dollaro, il marco, l’euro.
I tedeschi si sono comprati perfino la Skoda. La fabbrica!
Come souvenir ho preso trenta confezioni di wafer “Tatranky”, pacchetti tipo loacker ma molto più buoni. Solo dopo qualche giorno ho notato un marchio un po’ nascosto: Danone… Danone
Ci hanno davvero preso tutto! ci hanno preso tutto.”

Sono le parole di “Tatranky”, sulla musica degli Offlaga Disco Pax. Ma hanno ragione? Davvero l’Europa centro-orientale si è trovata di fronte ad una svendita, letterale quanto metaforica, della sua produzione industriale e della sua anima? E quanto ci hanno guadagnato, in cambio?
Per rispondere a quest’ultima domanda, c’è un interessante studio del 2009 di due economisti polacchi, Ryszard Rapacki e Mariusz Próchniak, della Warsaw School of Economics, pubblicato dalla Commissione Europea. Rapacki e Próchniak analizzano il contributo dell’allargamento UE alla crescita economica e alla convergenza dei livelli di vita, nei 10 nuovi paesi membri UE dell’Europa centro-orientale (CEE-10).
Il primo livello di analisi riguarda la convergenza nei livelli di reddito e di sviluppo tra UE-15 e CEE-10. Secondo la teoria economica neoclassica della crescita (Solow, 1956; Mankiw et al., 1992), un’economia meno sviluppata cresce più velocemente, finché tende a raggiungere gli stessi livelli di sviluppo e di crescita dei paesi più sviluppati. Dall’altra parte, la convergenza si ottiene anche dalla progressiva riduzione dei differenziali tra il PIL pro capite dei paesi avanzati e di quelli meno avanzati. Empiricamente, in base ai dati di Rapacki e Próchniak, i paesi CEE-10 hanno registrato una crescita economica più forte di quelli UE-15 nel periodo 1996-2007; più bassi i livelli di PIL di partenza, più alti i livelli di crescita annua. Questo forte effetto di convergenza ha portato il differenziale tra il PIL medio pro capite delle due aree a ridursi: se nel 1996 il PIL medio pro capite dei paesi CEE-10  ($ 8,097) corrispondeva a circa un terzo di quelli UE-15 ($ 21,119), nel 2007 tale relazione si era ridotta a circa il 50% ($ 16,516 e $ 33,234, rispettivamente). In particolare, la convergenza ha accelerato dopo il 2000, con l’avvicinarsi della data dell’allargamento. Resta il problema che la convergenza rallenta man mano che procede: con lo stesso andamento del decennio 1996-2007, ci vorrebbero altri 25 anni per dimezzare la distanza tra UE-15 e CEE-10.


Un secondo livello di analisi concerne la convergenza del PIL a livello regionale (NUTS-2). Anche qui, i dati pubblicati dalla Commissione Europea confermano alcune tendenze chiave: la riduzione del divario tra EU-15 e CEE-10m, così come la mancanza di una convergenza assoluta: i differenziali di reddito e salari permangono, per quanto ridotti.
La prima mappa indica i livelli di PIL pro capite, per regione, nel 2007. Si notano chiaramente la fascia dei territori più ricchi: Londra, Benelux, Renania, Baviera, Tirolo, Italia nord-orientale; ma anche il permanere del divario dei livelli di PIL: con l’eccezione di Slovenia, Repubblica Ceca ed Estonia, e di alcune regioni capitali, tutti i paesi dell’Europa centro-orientale si trovano ai livelli più bassi di reddito, pari solo a quelli del Portogallo settentrionale e di alcune regioni greche.

La seconda mappa mostra i cambiamenti nei livelli di PIL pro capita tra 2000 e 2007. Quasi come un negativo della prima, qui si può vedere come tutti i paesi CEE-10 abbiano goduto di una crescita del PIL pro capite, mentre i paesi dell’UE-15 segnano il passo con valori spesso negativi.

Andrew Watt, su Social Europe, concorda nel dire che il processo di convergenza esista ed è positivo, portando verso una progressiva equalizzazione dei livelli di PIL e di reddito nelle diverse regioni dell’UE. In meno di un decennio, la percentuale della popolazione che vive in aree a più del 125% del livello medio di PIL pro capite UE è scesa da un quarto ad un quinto, mentre quella di chi vive in aree a meno del 50% dei livelli medi è scesa dal 14% al 10%. Il 55% dei cittadini UE nel 2007 vive in regioni di reddito medio (tra il 75% e il 125% della media), con una crescita del 7% rispetto al 2000.
L’impressionante processo di convergenza dei nuovi stati membri a livello nazionale rispetto all’europa occidentale, secondo Watt, va di pari passo con una più spinta convergenza intra-nazionale negli stati UE-15, dove le regioni più povere colmano la distanza con quelle più ricche. Ciò non avviene, tuttavia, nei paesi CEE-10, in cui la crescita del PIL e dei redditi restano spesso concentrate alle città capitali e alle aree più industriali.
Watt indica infine tre sfide di cui tenere conto, nel dibattito sulla convergenza:
  • 1-      La progressiva tendenza alla crescita delle disuguaglianze sociali all’interno delle società europee;
  • 2-      La caduta dei livelli di reddito in alcuni paesi, per periodi anche prolungati, che può essere una delle ragioni della progressiva convergenza, come nel caso dell’Italia;
  • 3-      Infine, l’effetto della presente crisi economica e finanziaria, che rischia di colpire più fortemente proprio le aree che hanno sperimentato una maggior crescita ed un effetto di convergenza nell’ultimo decennio, con il rischio di una minor crescita nei prossimi anni ed un ulteriore rallentamento del processo di convergenza su scala continentale.