mercoledì 29 giugno 2011

ITALIA: La Bosnia non è un UFO

 Lettera al Sole 24 Ore, 29 giugno 2011

Caro direttore,
leggendo l’articolo di Jacopo Giliberto sul Sole24Ore del 29 giugno (“Bosnia, start-up di Confindustria”, p.27) mi è venuta la pelle d’oca per la quantità di refusi e imprecisioni che si possono impilare nel giro di cinque colonne. 

Il primo refuso arriva alla linea n. 9, con la città bosniaca di Jajce che si trasforma in Jajca. Si prosegue con “l’avventura bosniaca (anzi bosgnacca, come si diceva prima dell’indipendenza)”: ebbene, nulla a che vedere con l’indipendenza: il termine bosniaco (Bosnian in inglese, Bosanac in serbocroato) indica tutti i cittadini della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, quale che sia la loro identità culturale-religiosa serba, croata, musulmana, rom o ebraica; il termine bosgnacco indica invece prettamente i membri della comunità bosniaco-musulmana (Muslimani secondo la dizione jugoslava, Bosnjak secondo il termine più utilizzato a partire dagli anni ‘90).

La seconda colonna riporta un concentrato di pregiudizi: i bosniaci sarebbero “gente di onestà rara, cultura (industriale) solida e voglia montanara di impegnarsi alla pari di friulani e bergamaschi”. Ora, non perché io sia bergamasco, ma mi aspetterei di leggere una tale generalizzazione in un articolo del XIX secolo, non del XXI. Maria Todorova, nel suo “Immaginando i Balcani” (1997) ha descritto in maniera perfetta come i pregiudizi occidentali verso la regione costituiscano una forma di orientalismo, e Giliberto ci ricade in pieno.

Ma il bello arriva dalla terza colonna in poi, quando Giliberto si lancia nella descrizione del sistema delle autonomie territoriali del paese: “qualunque imprenditore estero deve destreggiarsi tra il Governo della federazione di Bosnia Erzegòvina a Sarajevo, i due governi federati dell’Erzegòvina (capitale Mostar) e della Bosnia (capitale Sarajevo), più il governo indipendentista della Repubblica bosniaca di Serbia (uno staterello piccolo così attorno al polo industriale di Banja Luka), e il microstato libero di Brcko, e poi i singoli governi cantonali. Ciascuno con i suoi ministri e capi di governo”. Verrebbe voglia di fargli un disegnino, al povero Giliberto perso nei meandri della complessità amministrativa balcanica, per mostrare come la Bosnia ed Erzegovina (capitale Sarajevo) sia invece suddivisa in due entità, una Federazione di Bosnia ed Erzegovina (capitale sempre Sarajevo), a maggioranza croata e musulmana, e decentrata in cantoni e municipalità, e una Republika Srpska (termine che sarebbe meglio non tradurre, ma proprio volendolo fare sarebbe la Repubblica Serba di Bosnia) che non è “piccola così” ma ricopre il 49% del territorio, in base agli Accordi di Dayton del 1995, ed ha un governo centralizzato a Banja Luka senza cantoni ma solo municipalità. Infine, e giustamente, il distretto di Brcko, che non è un “microstato libero” ma un territorio sottoposto direttamente al governo statale. Anzi. Il disegnino c’è già, lo si può trovare qua.

Per concludere: l’imprenditoria italiana, e il Sole24Ore come suo giornale di riferimento, fa bene a guardare ai Balcani come possibilità di investimento e sviluppo. Ma per farlo ci vuole anche la capacità di affidarsi a chi di Balcani si occupa da lungo tempo e sa muoversi in tali complessità senza rischiare scivoloni. Consiglio una lettura delle diverse riviste online sulla regione, a partire da EastJournal. 

Cordiali saluti,
Davide Denti

POLONIA: La presidenza dell’UE, una sfida per Tusk

Il logo della presidenza polacca del Consiglio UE, di Jerzy Janiszewski
Scritto per Gazzetta Italia (Varsavia), giugno 2011, e per EastJournal

La Polonia assumerà presto la Presidenza a rotazione del Consiglio dell’Unione Europea. Uno sguardo su priorità e sfide, e sull’esperienza degli altri paesi dell’Europa centro-orientale nello stesso ruolo.

Sarà il 1° luglio, quando l’Ungheria passerà alla Polonia la Presidenza a rotazione del Consiglio dell’Unione Europea. Da mesi Varsavia si prepara ad assumere il compito, sapendo che è una opportunità di visibilità irripetibile per il paese, ma gli eventi del 2011 rischiano di rendere difficile il compito dei servizi diplomatici del governo Tusk.

Cos’è la presidenza a rotazione del Consiglio dell’UE
Il Consiglio dell’Unione Europea è l’istituzione comunitaria che riunisce, a seconda dei differenti settori, i ministri competenti dei 27 governi nazionali dell’Unione. Il Consiglio condivide con il Parlamento la funzione legislativa, e può essere paragonato al Senato americano, dove ogni stato detiene lo stesso potere di voto; inoltre, si occupa delle materie gestite a livello intergovernativo, come la politica estera e di sicurezza comune.
Per via delle funzioni politiche domestiche dei vari ministri, il Consiglio è dotato di una struttura permanente a Bruxelles composta da diplomatici nazionali e funzionari europei. La presidenza a rotazione è stata introdotta per coordinare l’agenda dei lavori e garantire il funzionamento continuo del Consiglio. Negli anni, è diventata sempre più un’opportunità per i diversi paesi per mostrare le proprie capacità organizzative e diplomatiche nella costruzione del consenso, guadagnandone in immagine; per garantire la continuità dei lavori sono state create delle troike, in cui il paese di Presidenza si associa con il predecessore e il successore per acquisire e trasmettere esperienze e priorità. Il Trattato di Lisbona (2009), che istituzionalizza il Consiglio europeo (a livello dei capi di stato e di governo, differenziato dal Consiglio dell’UE a livello dei ministri) e vi associa un Presidente fisso (Herman Van Rompuy), ha depotenziato il ruolo delle diplomazie nazionali e della presidenza rotativa nella gestione e nel ruolo di definizione dell’agenda del Consiglio UE. Tuttavia, gli stati non hanno voluto abolirla per ora, anche solo per il suo prestigio e possibilità uniche di visibilità nazionale: con la nuova Unione a 27 e più, passerebbero almeno 14 anni prima che tale opportunità ritorni. Per allora la presidenza semestrale potrebbe anche non esistere più; la lista attualmente stabilita si ferma al 2020.

Priorità comuni e non nazionali
L’esperienza degli ultimi dieci anni ha mostrato che il compito della presidenza è meno immediato di quanto sembri: se dà anche agli stati più piccoli la possibilità di influenzare l’agenda del dibattito, può trasformarsi in una trappola. I lavori della presidenza sono considerati gravitare per l’85% su questioni ordinarie di agenda UE; per il 10% sulla gestione degli imprevisti; e infine solo per il 5% sulla priorità specifiche della presidenza semestrale. Non paga, in questo senso, portare priorità e soluzioni nazionali al tavolo, come fatto da Sarkozy nel 2008 con il progetto di Unione del Mediterraneo, contro cui hanno levato gli scudi tutti gli stati del nord, e il cui risultato, l’Unione per il Mediterraneo, è rimasto da allora completamente inerte. Paga piuttosto, come hanno mostrato le esperienze della Svezia e della Finlandia, inserire le priorità nazionali nel contesto dell’evoluzione dell’integrazione comunitaria. La Svezia è riuscita nel 2001 a lanciare il dibattito sulla certificazione dei prodotti chimici, fino a giungere all’approvazione della direttiva REACH, facendo adottare a livello comunitario gli standard svedesi. La Finlandia, nel 1999, ha rilanciato la Northern Dimension Initiative, facendone uno spazio di discussione diplomatica sui problemi comuni dell’Artico e del Baltico tra paesi UE, EFTA, stati baltici e Russia. Infine il Belgio, nel 2010, ha dimostrato che è possibile condurre una buona presidenza senza avere un governo nazionale, quando si ha una forte esperienza e un’ottima amministrazione (oltre a giocare in casa).

I nuovi stati membri e le presidenze semestrali del Consiglio
L’Ungheria, che ha rilevato dal Belgio la presidenza nel 1° semestre 2011, è stato il terzo tra i nuovi stati membri ad assumere la funzione, dopo Slovenia (1° semestre 2008) e Repubblica Ceca (1° semestre 2009). Le presidenze dei nuovi paesi membri non sono state finora particolarmente brillanti. Un po’ per inesperienza un po’ per ingenuità, tutti e tre i paesi sono stati ricordati più per gli scivoloni che per i meriti.
La Slovenia, che avrebbe voluto centrare lo sguardo dell’Unione sui paesi balcanici, si è trovata presa nella tormenta della dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo, e delle diverse politiche degli stati UE sul suo riconoscimento, ed è scivolata su una telefonata di Condolezza Rice per dettare al ministero degli esteri sloveno la posizione da tenere, per naufragare infine sul primo no irlandese sul trattato di Lisbona. 
La Repubblica Ceca è arrivata alla presidenza con un presidente della repubblica, Vaclav Klaus, fieramente euroscettico, ed un governo, quello di Marek Topolanek, che è collassato a metà percorso; un percorso definito da più parti caotico, e che è riuscito a rimettere insieme i cocci solo grazie al buon lavoro del governo tecnico di Jan Fischer nel raggiungere un compromesso in grado di convincere l’Irlanda a votare sì ad un secondo referendum sul trattato di Lisbona.
Infine l’Ungheria, la cui presidenza ha avuto forse l’effetto paradossale di concentrare l’attenzione dell’Unione sui pericoli del crescente autoritarismo interno del governo di Viktor Orban, che nel giro di sei mesi ha cercato di passare una legge per mettere sotto controllo i mezzi d’informazione, ha riscritto la Costituzione e si è attirato ulteriori critiche per l’ipocrisia sulle politiche di integrazione dei rom. I magiari ha visto fallire l’obiettivo di estendere l’area Schengen a Romania e Bulgaria, e sono stati infine travolti dalle conseguenze delle rivolte arabe sulla sostenibilità stessa di Schengen.

La presidenza polacca: priorità, strategie, sfide
Dati i precedenti, sarà difficile per la Polonia fare di peggio; tuttavia sarà meglio che la squadra di Tusk analizzi le lezioni delle altre presidenze, a partire da quella ceca. Varsavia può contare quantomeno su un governo solido e filo-europeo, e su un ministro degli esteri esperto e credibile. Dall’altra parte, Tusk ha accettato di correre un rischio nel calendarizzare per ottobre, durante il semestre di presidenza, delle elezioni politiche che non dovrebbero comunque riservare sorprese maggiori se non un possibile allargamento a sinistra della coalizione governativa.
La Polonia ha scelto come priorità della presidenza, oltre alle necessarie negoziazioni del bilancio 2014-2020, i temi della difesa, dell’energia e del vicinato orientale. Tuttavia sarà soprattutto il contesto internazionale a definire le effettive sfide che la diplomazia polacca dovrà affrontare a Bruxelles: in primis il rischio di bancarotta della Grecia, che potrebbe mettere a repentaglio l’intera zona euro, quindi la necessità di riformare il sistema di Schengen e Dublino-2, e ricostruire la strategia UE verso i paesi del Mediterraneo nella fase di transizione democratica. Tusk farà bene a prepararsi a tenere saldi i nervi e il timone dell’Unione, se altre crisi inaspettate dovessero presentarsi all’orizzonte.

ITALIA-POLONIA: La stampa polacca e la fine di Berlusconi

La sobria reazione di Libero-news.it

Scritto per East Journal, 9 giugno 2011

E così Pisapia, nonostante i furti d’auto, gli zingari, e le moschee, ha effettivamente conquistato Palazzo Marino. I giornali polacchi hanno registrato anche il secondo turno delle elezioni amministrative italiane, anche se più in sordina. Berlusconi riappare sulla stampa polacca per i suoi processi e paragonato ad una gaffe di Tusk.

Gazeta.pl ha annunciato già il 30 maggio che Berlusconi riconosceva la sconfitta, riportando la frase minacciosa verso i milanesi, incoraggiati a pregare il buon Dio perché nulla di male gli succeda. Rzeczpospolita, giornale conservatore, il 31 maggio titolava della sconfitta di Berlusconi nelle elezioni locali, dopo una campagna elettorale “intensa e a volte volgare”, incluso l’insulto agli elettori di sinistra “senza cervello”. Il quotidiano di Varsavia riporta anche l’opinione dissidente di Giuliano Ferrara, su una campagna in cui sono stati fatti “tutti gli errori possibili”, e nota come tutte le maggiori città d’Italia, esclusa Roma, sono oggi in mano all’opposizione. Il carisma di Berlusconi, questa volta, “ha fallito nell’aiutare i suoi candidati, anzi li ha danneggiati”. Secondo Rzeczpospolita, che riporta lo scetticismo della Lega e l’invito di Ferrara e Belpietro a non ripresentarsi nel 2013, “tutte le indicazioni puntano al fatto che l’era Berlusconi, durata 17 anni, volge al termine”.

Anche i procedimenti giudiziari di Berlusconi sono apparsi nelle news polacche: ancora su Rzeczpospolita, che ha riportato l’avvio dei processi Mediatrade e Ruby in concomitanza con il turno elettorale, e quindi su Gazeta.pl, che ha notato l’indagine aperta dalla procura di Roma, su segnalazione dei Radicali, a proposito dei comunicati/intervista trasmessi a ripetizione dai TG del 20 maggio.

Infine, Berlusconi è riapparso sui giornali polacchi come pietra di paragone per uno scivolone in cui è incorso il premier polacco Donald Tusk. A seguito dell’ondata di caldo estivo (30°) che ha raggiunto la Polonia ai primi di giugno, in una conferenza stampa Tusk si è sentito domandare da una giornalista di Polskie Radio se tutto era “abbottonato” per la presidenza UE a rotazione, che la Polonia ricoprirà dal primo luglio. “A guardare il vestito estivo della signora, abbottonato non è ciò che mi viene in mente. Mi piace… l’estate”, è stato il commento, inaspettato a queste latitudini, del premier polacco, che ha scatenato una selva di commenti e critiche, con paragoni prima con Bill Clinton, e quindi con Berlusconi. L’idea, uscita dalla versione inglese di Metro, è rimbalzata su Polskie Radio per ricadere nell’agone politico, dove Tusk è stato avvertito dalla destra polacca di Diritto e Giustizia di non cadere nel girone del bunga-bunga.

ITALIA-POLONIA: Pisapia ha firmato il patto di Varsavia?


Le elezioni municipali italiane non hanno certo fatto le prime pagine dei giornali in Polonia, ma i quotidiani hanno comunque dato notizia del clima e degli esiti della tornata elettorale. In un paese in cui le spese elettorali sono strettamente regolate e le campagne elettorali si svolgono in sordina, i toni nostrani sembrano curiosità esotiche.

Rzeczpospolita (giornale conservatore) il 15 maggio riportava che “l’Italia ha mostrato un imbarazzante e ridicolo spettacolo di reciproci insulti”. A seguire, l’elenco: le donne dell’opposizione “brutte come la notte” (La Russa), i leader dell’opposizione incazzati per doversi guardare allo specchio la mattina (Berlusconi) e che non si lavano (sempre il nostro); le accuse di essere ladri e fascisti, lanciate di rimando dall’opposizione. E infine lo sgarbo della Moratti con la falsa accusa a Pisapia, citato dal giornale comunque come “un tempo simpatizzante dei terroristi delle Brigate Rosse” - calunniate, calunniate, qualcosa resterà.

Gazeta Wyborcza, giornale social-liberale, aggiunge come Berlusconi si sia fatto appositamente mettere capolista tanto a Milano quanto a Napoli, per trasformare le elezioni municipali in un referendum su sé stesso, nel momento in cui più si trova in difficoltà per il riavvio dei processi. Gazeta conclude con il triplo “vinceremo” a Milano, nelle parole di Bossi, Berlusconi e Formigoni, contro lo sfidante del PD.

Un po’ diversi i toni nel post-elezioni, con Rzeczpospolita che titola “L’inizio della fine per il primo ministro italiano?”. Nonostante la campagna elettorale “acuta e a volte volgare”, e l’impegno in prima persona di Berlusconi, RP nota il “disastro” dei risultati di Milano, ricordandone l’importanza per Berlusconi e la netta perdita di voti rispetto alle regionali del 2010, riportando infine come queste elezioni siano il primo segno che gli italiani sono stanchi del loro primo ministro, e come ciò sarà da confermare alle elezioni del 30 maggio.

UE: Integrazione est-ovest, un bene o un male per i singoli stati?

Allargamento UE 2004 e 2007

Scritto per EastJournal, 27 maggio 2011



Quali sono stati i benefici e i costi dell’integrazione economica tra Europa orientale ed Europa occidentale? E’ vero che i paesi dell’est ci hanno rimesso? o ci hanno rimesso i paesi dell’ovest? E’ il caso di partire da qualche argomento di tipo economico.
Tre argomenti circolavano in particolare nella vulgata pubblica, negli anni attorno all’allargamento, sostenendo che il costo dell’integrazione fosse particolarmente alto, per i paesi dell’Europa occidentale. E’ il caso di riguardarli oggi, in prospettiva, anche per intuire quali sono stati effettivamente i costi e i benefici anche per l’Europa centro-orientale.
(1) Le esportazioni a basso costo dei paesi dell’est faranno fallire le nostre piccole e medie imprese
Al contrario, i dati economici dimostrano che le importazioni dei 12 nuovi stati membri (EU+12) sono cresciute più velocemente delle loro esportazioni. Questo perché tali paesi, per sviluppare le proprie economie e sistemi produttivi, hanno importato beni d’investimento (macchinari industriali, etc) dai paesi EU-15.
(2) Le nostre imprese si sposteranno in Romania, e la disoccupazione all’Ovest aumenterà
Ricordate il dibattito sulla delocalizzazione? Be’, in pochi anni è finito fuori dall’agenda politica, perché era un non-problema. Non si trattava di de-localizzazione ma di ri-allocazione; i 12 nuovi stati membri hanno rappresentato nuovi mercati per le imprese occidentali, in cui estendere la propria attività. Questo ha creato occupazione all’est, senza necessariamente distruggere occupazione all’ovest, come è evidente nel settore dei servizi (ad esempio il turismo). Di fatto, l’allargamento ha creato nuovi mercati di produzione ed esportazione per le aziende dei paesi EU-15.
(3) Saremo sommersi dall’invasione di lavoratori immigrati, e saremo costretti a rinunciare ai nostri benefici sociali e sindacali.
Una delle paure più antiche dell’integrazione economica è quella del dumping sociale causato da una massiccia immigrazione di manodopera a basso costo (ricordate i gastarbeiter italiani in Germania, o ancora oggi i transfrontalieri in Svizzera?).
Di fatto, tale fenomeno è stato molto limitato, anche perché diversi paesi hanno acconsentito ad una apertura solo graduale del mercato del lavoro (Germania ed Austria solo a partire dal 1° maggio 2011). Dove è avvenuto, come nel caso dell’emigrazione dei giovani polacchi in Gran Bretagna, i benefici sono stati globalmente positivi in entrambi i paesi: la Gran Bretagna ci ha guadagnato in crescita economica, la Polonia in rimesse ed investimenti.

Chi ha ancora paura dell'idraulico polacco?
L’allargamento ha avuto costi più psicologici che economici. Di fatto, è stato preso come capro espiatorio per problemi che sono invece tipici delle economie occidentali, dove i tassi di disoccupazioni sono legati alla bassa crescita e alla bassa innovazione dei sistemi economici per mancanza di adattamento alla globalizzazione e all’IT come nuovo paradigma tecnologico.
Al contrario, l’allargamento ha portato benefici in termini economici per i paesi dell’Europa occidentale: una maggiore integrazione del mercato ha permesso di sfruttare meglio i vantaggi comparati dei diversi territori, spingendo la specializzazione tecnologica. L’efficienza economica dei sistemi produttivi tanto all’est quanto all’ovest ne ha guadagnato, grazie all’aumento della competizione sui mercati, la possibilità di maggiori economie di scala, e la differenziazione produttiva.
L’allargamento ha prodotto un forte potenziale di sviluppo economico, che deve ancora essere messo a frutto nella sua parte maggiore. I nuovi stati membri possono contribuire rispondendo a tre sfide: la stabilità macroeconomica, con la riduzione di deficit e debito pubblico; la ristrutturazione e riqualificazione delle strutture produttive, che procede più velocemente quando in partnership con le imprese dei paesi EU-15; e infine lo sviluppo delle infrastrutture fisiche (trasporti e sistemi logistici) e finanziarie (sistemi bancari e borse valori).

CROAZIA: L’affare Gotovina sbarra la strada tra la Croazia e l’UE


La prima pagina di Vecernji List: “Eroe”

La sentenza del Tribunale penale per l’ex Jugoslavia, 24 anni per l’eroe di guerra croato Ante Gotovina, ha scatenato l’opinione pubblica a Zagabria. Il risultato del referendum sull’ingresso nell’Unione, da tenersi in autunno, è in forse.
   
Il 15 aprile, il Tribunale Penale per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia (ICTY) ha condannato a 24 anni di prigione il generale Ante Gotovina, eroe nazionale dell’indipendenza croata.

Il verdetto per Gotovina è particolarmente pesante: nelle motivazioni della sentenza, la corte considera Gotovina e Mladen Markac (l’altro imputato, responsabile della Polizia Speciale) membri e pianificatori di una “joint criminal enterprise”, guidata dall’allora presidente Franjo Tudjman e dall’allora ministro della difesa Gojko Susak, volta alla pulizia etnica della regione della Krajina dai suoi abitanti serbi. Il contesto è quello dell’operazione Oluja, tempesta, che tra Agosto e Settembre 1995 spazzò via l’autoproclamata Repubblica Serba di Kraijna, segnando la riconquista croata della sovranità su circa 1/3 del territorio dello stato, e cambiando l’equilibrio delle forze nella guerra in Bosnia, aprendo la strada verso Dayton. Secondo l’ICTY, nell’operazione è stato violato il diritto bellico (saccheggio di proprietà pubbliche e private, distruzioni immotivate, trattamenti crudeli e degradanti, omicidi) e commessi crimini contro l’umanità (persecuzione, deportazione, atti inumani, omicidi), alla cui pianificazione Gotovina e Markac hanno preso parte, e che si sono conclusi con la deportazione di circa 20.000 serbi di Croazia verso la Bosnia (in totale, più di 200.000 serbi hanno lasciato la Croazia durante il periodo bellico).

La sentenza dell’ICTY non arriva come una novità per la maggior parte degli osservatori europei, ed è stata salutata con favore dalla Serbia, che per una volta si vede dalla parte delle vittime. Ma la percezione in Croazia è stata molto diversa. Per la prima volta, la vulgata ufficiale sulla “guerra patriottica” viene messa in discussione. Nonostante le sentenze dell’Aja siano volte proprio a individualizzare le responsabilità e le pene, l’opinione pubblica non ha accettato quello che considera come una condanna per la Croazia intera, e la trasformazione “delle vittime in carnefici”. Come mostra in maniera iconica la prima pagina di Vecernji List, Gotovina resta considerato un “eroe”, ingiustamente messo alla sbarra da giudici internazionali che non possono capire le ragioni e le circostanze del conflitto, per non averlo vissuto; lo stesso giornale riporta che la Croazia è in uno stato “tra l’indignazione e il disgusto”. Perfino la Conferenza Episcopale Croata, dopo aver richiamato alla calma, si è sentita in dovere di aggiungere che “il tribunale dell’Aja non ha valutato in maniera corretta il fatto che la Croazia fosse una vittima dell’aggressione serba”. Sembra ancora lontano il tempo in cui anche in Croazia si potrà aprire un dibattito pacato sulle ragioni e i torti del conflitto, e in cui si potrà ammettere che crimini di guerra sono stati compiuti da entrambe le parti.

Sabato, più di diecimila persone sono scese in piazza a Zagabria, per mostrare supporto a Gotovina, chiedendo le dimissioni del governo Kosor e sventolando bandiere contro l’UE. L’adesione della Croazia all’Unione, dopo essersi trascinata per anni (era stata inizialmente prevista per il 2007, oggi è data per il 2013) è sempre meno popolare. Recentemente, i sondaggi davano meno del 50% della popolazione a favore, e la sentenza Gotovina potrebbe portare un colpo definitivo alla reputazione dell’Unione nel paese.

L’affare Gotovina non è l’unico ostacolo sulla strada dell’integrazione della Croazia. I negoziati sull’attuazione del diritto europeo in Croazia dovrebbero chiudersi entro giugno, ma i termini sono sempre più incerti, per mancanza di progressi sugli ultimi capitoli aperti, soprattutto quello relativo alla giustizia. Il presidente Josipovic ha ricordato che uno slittamento avrebbe un impatto negativo sull’opinion pubblica, sempre in vista del referendum: "A failure of the referendum will be a disaster not only for Croatia but for the EU as well because Croatia is somehow a measure of European success in this region,"

Nei mesi scorsi, la Croazia è stata scossa da una serie di proteste popolari contro il governo di Jadranka Kosor, considerato implicato negli scandali che hanno portato alle dimissioni dell’ex primo ministro Ivo Sanader, e non in grado di superare la crisi economica. Le elezioni parlamentari sono previste per l’autunno,  separate rispetto al referendum sull’Unione.

Lo stop all’adesione della Croazia, che dovesse venire da un esito negativo del referendum croato dell’autunno, avrebbe effetti destabilizzanti sulla strategia di allargamento dell’Unione. La Croazia è oggi l’unico paese ad avere pressoché concluso le negoziazioni di adesione, dato che diversi capitoli della Turchia sono bloccati per la questione di Cipro; la Macedonia è bloccata dall’ostracismo greco; e il Montenegro ha appena ricevuto lo status di candidato e deve ancora iniziare. Questi altri paesi candidati vedrebbero quindi come sempre meno credibile la prospettiva di cittadinanza comune della regione nell’Unione. Dall’altra parte, il rinvio soffierebbe sul fuoco della destabilizzazione della Bosnia, che oggi annaspa in una crisi politica in stile belga, e rinvigorirebbe le motivazioni dell’opposizione serba contro il dialogo con le autorità di Pristina e la collaborazione con l’ICTY.

Il rinvio dell’adesione della Croazia potrebbe infine avere un impatto diretto sulla governance dell’Unione: il trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, è nato “già vecchio”. Gli sviluppi della crisi finanziaria del 2008-09 hanno portato gli stati dell’UE a concordare su una serie di modifiche (tra cui il fondo europeo di salvataggio, lo European Stability Mechanism, e un protocollo per l’Irlanda su neutralità, tassazione delle imprese e libertà legislativa sull’aborto), che avrebbero dovuto essere introdotte nei testi fondamentali attraverso lo stesso trattato per l’adesione della Croazia. Se quest’ultimo venisse rimandato, anche la riforma delle strutture dell’Unione subirebbe uno stop. Neanche sei mesi, la situazione era l’opposta, e l’Ungheria ricordava che la mancanza di consenso sulla riforma dei trattati non avrebbe dovuto rallentare l’adesione della Croazia. Il piano B di Bruxelles prevede di separare le due questioni, Croazia e revisione di Lisbona, in due nuovi trattati distinti.