lunedì 24 ottobre 2011

TURCHIA: L’Onu chiede più indipendenza per la magistratura e più garanzie per gli imputati

Pubblicato su EastJournal, 24 ottobre 2011


Per una volta non è l’Europa a fare le pulci alla Turchia: il richiamo al governo di Erdogan arriva direttamente dal Relatore Speciale ONU per l’indipendenza dei giudici e degli avvocati, Gabriela Knaul, che ha chiesto alle autorità turche di adottare misure supplementari per garantire l’effettiva indipendenza e l’imparzialità del sistema giudiziario.

Al termine di una visita di cinque giorni ad Ankara, Istanbul e Diyarbakir, Knaul ha lodato le recenti riforme costituzionali sul Consiglio superiore della magistratura, ma ha sottolineato come esse vadano portate avanti per garantire l’effettiva indipendenza del potere giudiziario dall’esecutivo: “il ministro della giustizia presiede ancora il Consiglio superiore e autorizza le indagini condotte da questo corpo. E’ necessario un Consiglio superiore totalmente indipendente dal potere esecutivo, strutturalmente, funzionalmente ed in pratica.”
Altri punti richiamati da Knaul nel suo incontro con la stampa includono:
  • l’accesso alla giustizia
  • le garanzie del giusto processo, e il rispetto dei principi di imparzialità e di parità delle armi. La necessaria parità tra avvocati, giudici e pubblici ministeri è messa a rischio dal rapporto troppo stretto tra questi ultimi due;
  • il diritto alla difesa legale, specialmente nel caso dei processi per terrorismo e criminalità organizzata, che includono restrizioni alle garanzie procedurali;
In uno stato democratico, basato sullo Stato di diritto, un sistema giudiziario indipendente e imparziale è una garanzia fondamentale per la società nel suo complesso“, ha detto Knaul.
I punti su cui il relatore speciale si è soffermata richiamano pressoché negli stessi termini quelli che sono da sempre i maggiori punti di contenzioso tra la Turchia e la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), in relazione specialmente all’art. 6 della Convenzione, relativa al giusto processo ([1], [2]).
Se già ampi passi sono stati fatti per il miglioramento del sistema della giustizia in Turchia, Knaul ricorda come altri siano ancora da fare. Che l’invito venga, per una volta, non da quell’Unione Europea su cui inizia ad aleggiare il sospetto tra Ankara ed Istanbul, né dalla Corte di Strasburgo, ma da un corpo di maggior imparzialità quale l’ONU, può far sperare nella migliore accoglienza di un tale invito alla riforma.

domenica 23 ottobre 2011

POLONIA: Destra e sinistra dopo le elezioni

 Pubblicato su EastJournal,  21 ottobre 2011

Stabilità ed egemonia a destra
Piattaforma Civica (PO) e Diritto e Giustizia (PiS) si confermano stabili, e sembrano ipotecare un posto centrale nel bipolarismo polacco per il prossimo decennio. PO mantiene la maggioranza relativa; PiS mantiene i livelli del 2007 e dimostra che un terzo dell’elettorato polacco è convintamente e stabilmente conservatore. Il centrodestra conferma così la sua egemonia nel sistema politico polacco (PO e PiS sono membri rispettivamente di PPE e ECR al Parlamento Europeo), con la diretta discendenza dall’esperienza di Solidarnosc contro il regime socialista, mentre anche gli agrari del Partito Popolare Polacco (PSL) tengono sul 10% e si confermano alleato necessario e sufficiente per Tusk;

Ricomposizioni a sinistra /1: la fronda radicale di Palikot
Se il panorama di centrodestra sembra strutturato ed egemonico, la sinistra è minoritaria e soggetta a forti ricomposizioni. La maggior novità deriva dalla discesa in campo e dal successo del Movimento di Janusz Palikot (RP), miliardario ex-PO che, con una campagna elettorale radicale ed anti-clericale (liberalizzazione delle droghe leggere e delle restrizioni all’aborto, diritti civili per gli omosessuali, fine dell’educazione cattolica nelle scuole pubbliche), ha raccolto in meno di due mesi il 10% dei voti, sottraendoli soprattutto ai socialdemocratici di SLD, il cui leader Napieralski si è dimesso subito dopo il voto per il magro risultato del partito.
Palikot è un personaggio emblematico della modernizzazione e spettacolarizzazione della politica anche in Polonia: incrocio tra il Berlusconi e il Pannella degli anni ’90, ha raccolto soprattutto i voti dei giovani e delle classi urbane, liberali in economia tanto quanto nell’etica pubblica. A queste, se PO offriva una prospettiva di liberalismo economico ma accoppiata ad una piattaforma morale filo-cattolica, SLD proponeva una protezione dei diritti sociali e l’allargamento dei diritti civili, ma accompagnata ad una politica economica troppo statalista. Palikot ha azzeccato l’accoppiata tra liberalismo economico e sociale, colmando un vuoto nell’offerta politica e vedendosi subito ricompensato.
Con Palikot sono entrati al Sejm, per la prima volta, un transessuale e due afro-polacchi. Sembra di essere anni luce, ma erano solo 4 anni fa quando sugli stessi banchi parlamentari sedevano i deputati ultraconservatori di Autodifesa e della Lega delle Famiglie Polacchi. Come scrive Gian Marco Mele, “il successo di Palikot mostra come la società polacca sia molto meno conservatrice della sua classe politica e della sua stessa rappresentazione interna ed esterna (ancora legata alla figura di Karol Woytila),  ma anche di come l’immagine di uomo di  successo unita a metodi di propaganda populista attragga le simpatie dell’elettorato.
 
Ricomposizioni a sinistra /2: serve una rifondazione per i socialdemocratici
Agli eredi di Napieralski e di SLD resterà da fare una seria riflessione nel futuro prossimo. Il partito, già maggioranza relativa nel 1993-97, deve ritrovare una linea politica appetibile. Una evoluzione “rosso-verde”, nel segno dell’ecologismo, sembra improbabile: la Polonia resta uno dei maggiori inquinatori di CO2 in Europa, con le sue centrali a carbone, e lo sviluppo economico ha ancora la priorità rispetto alla sensibilità ambientalista. Dall’altra parte, forse posizioni di “new left” laburista potrebbero essere appetibili per l’elettore polacco, per il quale i nuovi diritti contano, ma lo statalismo economico resta indigeribile. Il prossimo congresso socialdemocratico dovrà prendere delle decisioni.

POLONIA: Una democrazia consolidata


 Pubblicato su EastJournal, 19 ottobre 2011

Quando un’elezione si conclude con la riconferma del governo in carica, solitamente c’è poco da dire e da scrivere. Non così per le elezioni di ottobre in Polonia. Una normalizzazione, tra stabilità e novità, che sembra farci dare l’addio alla Polonia dei clichè.

Consolidamento del sistema politico
In scienza politica, si definisce consolidato un sistema politico quando gli stessi partiti e/o schieramenti si presentano per due elezioni di fila. La Polonia ci era arrivata già cinque anni fa (elezioni 2001 e 2005), ma oggi Donald Tusk ottiene un secondo passo, conquistando una rielezione per la prima volta nei vent’anni di democrazia polacca.
Tanto per fare un paragone, il sistema politico italiano non è affatto consolidato in questi termini. Abbiamo lo stesso premier del 1994, ma i partiti del 2006 non sono gli stessi del 2008, e nessun premier è mai stato rieletto nelle scorse cinque tornate elettorali. Sono lontani i tempi dello spauracchio delle “elezioni alla polacca”, quando nel 1991 nessun partito ottenne più del 13% al Sejm.

Solo metà Polonia al voto
Il livello di affluenza al voto (48%), scarso per gli standard di molti paesi dell’Europa occidentale, è comunque nella media delle sei tornate elettorali precedenti (tra 43% e 54%); è stato piuttosto il valore del 2007, un 54% ad essere un’eccezione spiegata dal forte valore emotivo di tali elezioni.
La Polonia è penultima nella classifica della partecipazione al voto, ma comunque tra Stati Uniti (48%) e Svizzera (54%), due democrazie ben raramente messe in discussione. L’Italia, che nella stessa classifica al 90% è al terzo posto nei sistemi di voto non obbligatorio dopo Malta e Austria, ha una storia e fondamenti di cultura politica differenti, ma la partecipazione al voto dei polacchi resta su livelli molto più bassi dei loro vicini cechi, slovacchi o ungheresi. Linz & Stepan (1996: 255) hanno provato a delineare le ragioni della bassa partecipazione al voto dei polacchi, concentrandosi sulla opposizione tra una società civile “etica”, costruitasi negli anni ’80 come opposizione morale ad un comunismo autoritario, ed una società politica che ha mantenuto i caratteri dell’ambiguità nella transizione dal vecchio al nuovo sistema. Come scrivono (p. 272), “sfortunatamente, il cammino da pioniere della Polonia verso la transizione democratica attraverso una società civile etica crea inevitabilmente discorsi e pratiche che, finché non saranno trasformate, genereranno problemi sistematici per la creazione di una società politica democratica”. L’analisi è del 1996, ma per quanto riguarda i livelli di partecipazione al voto sembra che poco sia cambiato da allora.

Una campagna elettorale tranquilla e moderna
Nonostante i timori e alcuni scossoni dell’ultimo momento, la campagna elettorale si è svolta serenamente, senza turbare più di troppo gli impegni istituzionali del governo nel quadro della Presidenza del Consiglio dei ministri dell’UE. Il rapporto tra politici ed elettori è stato soprattutto mediato dalle agenzie di pubblicità politica – un’altra evoluzione del sistema polacco – con una prevalenza dei messaggi attraverso i media, tradizionali e no, piuttosto che attraverso i raduni di piazza.
Per quanto riguarda la rappresentanza femminile, il 23% dei neo-deputati è donna: una percentuale quasi doppia rispetto all’Italia. Già a livello di lista, il sistema delle “quote rosa” garantisce il 35% dei posti alle candidate.
Queste elezioni rappresentano dunque un rafforzamento della democrazia polacca. Il consolidamento del sistema politico e una campagna elettorale moderna e misurata, allontanano una volta per tutte la Polonia dai clichés del passato

POLONIA: Strane geografie elettorali







Un’occhiata alle mappe elettorali della Polonia mostra una impressionante continuità tra il 2007 e il 2011 nella divisione est-ovest del paese. La linea divisoria del paese, che rispecchia il confine della Prussia rispetto alla “Polonia del congresso” zarista e alla Galizia austro-ungarica (1815-1919), sembra anzi approfondirsi, con PiS sempre più radicato all’est e PO all’ovest. Uniche differenze sostanziali, PiS guadagna alcuni centri urbani nel sud-est, ma li perde in Alta Slesia.

E’ una Polonia un po’ prussiana, quella che governa dal 2007? La geografia elettorale lo lascerebbe pensare, e anche il carattere politico ed economico del governo Tusk sembra andare nella stessa direzione. D’altronde, il paese ha ormai guadagnato il titolo di “nuova Germania”: per la crescita economica sostenuta, il ruolo di leader regionale dei nuovi paesi membri, e non ultimo per l’integrazione economica industriale tra le imprese delle due sponde dell’Oder-Neisse.

In effetti, diversi set di fattori possono essere ipotizzati per una tale divisione, senza ricorrere alla resurrezione delle identità storiche.
In primo luogo, esiste un gradiente economico-urbano da ovest a est, tra territori più urbanizzati e sviluppati, all’ovest, rispetto alle aree più rurali e povere dell’est (come si nota anche nella mappa della rete ferroviaria polacca). Le maggiori città, anche all’est, votano più liberale, mentre le aree conservatrici all’ovest fanno soprattutto riferimento a zone di miniere.

Una seconda serie di fattori potrebbe essere relativa al ruolo e al peso della Chiesa cattolica, più forte all’est che all’ovest. Da una parte perché circoscritta, sotto i prussiani, dalla politica bismarckiana del kulturkampf , mentre libera e identitariamente centrale nelle zone zariste e austro-ungariche.  Dall’altra, perché nei territori appena acquisiti all’ovest, e dove si stabilirono nuove popolazioni in fuga dai territori persi ai sovietici, il partito comunista poté avere più presa, rispetto alle reti smagliate della Chiesa cattolica.

Nell’attesa di studi approfonditi sulla materia, resta sempre valido ciò che si sente dire a Poznan e Torun: “Varsavia è già Russia”.

domenica 9 ottobre 2011

POLONIA: Vigilia del voto. I partiti minori saranno l’ago della bilancia

Pubblicato su EastJournal, 9 ottobre 2011


Outlook uncertain”, titola il Warsaw Business Journal sulle elezioni polacche, con una metafora economica. In pochi mesi, quella che sembrava dover essere una passeggiata per un governo stabile e popolare rischia di trasformarsi in una trappola che potrebbe restituire alla Polonia uno scenario politico frammentato ed un governo più debole. 

I sondaggi di venerdì 7 ottobre, ultimo giorno di campagna prima del silenzio elettorale, danno Piattaforma Civica (PO), il partito centrista del premier Donald Tusk, in risalita al 39% contro il 29% del partito di destra Diritto e Giustizia (PiS) dello sfidante ed ex-premier Jaroslaw Kaczynski. A seguire in parità il 10% del Movimento Palikot (RP), nuovo soggetto politico liberale ed anti-clericale, il 9% degli agrari del Partito Popolare Polacco (PSL), alleati di Tusk, e il 9% dell’Alleanza Democratica di Sinistra (SLD). Se tali valori dovessero essere confermati alle urne, Tusk vedrebbe salva la poltrona da premier, ma dovrebbe allargare la coalizione PO-PSL ad un altro partito, RP o SLD, con un laborioso processo di negoziazione post-elettorale. Dall’altra parte, Kaczynski deve sperare in una volata dell’ultimo momento per raggiungere i voti necessari a formare una maggioranza: dei tre partiti minori, solo gli agrari non hanno escluso di entrare in coalizione con i conservatori.

D’altronde, PO ha sempre avuto maggiori difficoltà a mobilitare i propri elettori, mentre PiS è sempre risultata sottostimata dai sondaggi: secondo una ricerca, un terzo degli elettori conservatori sono molto attenti ad esprimere le proprie idee politiche, contro solo il 12% degli elettori di PO. Un po’ come avviene in Italia per gli elettori di Lega e PdL, sembra che le idee conservatrici siano meno accettate nel dibattito pubblico e si esprimano prevalentemente nelle urne. Ad oggi, le possibilità di vittoria dei due candidati potrebbero quindi essere realisticamente paritarie. Tusk ha passato la chiusura della campagna elettorale in Slesia, dove la fedeltà degli elettori autonomisti del RAS al governo è tutta da conquistare, mentre Kaczynski ha preferito terminare a Gdansk, per rimarcare le radici del suo partito nell’esperienza di Solidarnosc.

Proprio per mobilitare gli elettori ancora indecisi e la propria base elettorale disillusa (secondo alcuni, fino al 20-25% degli aventi diritto al voto), tanto Kacynski quanto Tusk, al termine di una campagna elettorale dai toni relativamente pacati, hanno puntato sul discredito e la demonizzazione dell’avversario. Tusk sa che la sua risorsa di maggior valore è il pessimo ricordo, per la maggioranza dei polacchi, del biennio 2005-2007 di governo Kaczynski; gli ultimi cartelloni elettorali riprendono come spauracchio alcuni dei gruppi sociali più conservatori e sostenitori dello sfidante premier. Da una parte i “difensori della croce”, con riferimento alle proteste di piazza relative alla rimozione della croce di legno piantata davanti al palazzo presidenziale in memoria di Lech Kaczynski, presidente della Repubblica morto nel disastro aereo di Smolensk nell’aprile 2010; dall’altra parte, certi hooligan, come Staruch, leader degli ultras della Legia Warszawa, recentemente arrestato e definito da Kaczynski un “patriota”. “Loro vanno a votare, e tu?” è lo slogan, provocatorio ed emozionale, e sul limite del politicamente corretto, ma che potrebbe effettivamente servire a mobilitare quegli elettori che voterebbero PO pur come diceva Montanelli “turandosi il naso”, per evitare un ritorno al potere dei conservatori.

Dall’altra parte, Kaczynski ha puntato sull’impresentabilità di Janusz Palikot (RP), ex-PO candidato su una piattaforma decisamente radicale per gli standard polacchi, con venature anti-clericali e la proposta di legalizzazione delle droghe leggere. “Lunedì Palikot potrebbe essere al governo”, recitano i cartelloni di PiS. L’effettivo risultato elettorale del Movimento Palikot resta un’incognita: Tusk si è affrettato a smentire ogni possibile cooperazione con Palikot, per non rischiare di perdere i voti moderati. Inoltre, Kaczynski ha rinfrescato l’immagine del partito con una “operazione Carfagna”, sparpagliando una decina di belle e giovani ragazze in vari collegi elettorali, per fare dei conservatori un partito “cool” e attrarre i voti dei giovani sotto i 25 anni.

Il ruolo della Presidenza della Repubblica, in uno scenario post-elettorale in cui Kaczynski dovesse risultare vincitore, è comunque da verificare. Il presidente Komorowski (PO) ha il potere costituzionale di affidare il mandato per la formazione del governo, ma non è detto che debba selezionare il leader del maggior partito. Un suo consigliere ha detto alla stampa, nei giorni scorsi, che in caso di vittoria elettorale del PiS Komorowski potrebbe comunque selezionare un politico differente, soprattutto nel caso in cui PiS non avesse chance di formare una coalizione di maggioranza in parlamento. Komorowski si troverebbe così in condizione di king-maker, di fronte ad un Tusk costretto a formare un governo di minoranza o addirittura a cedere il posto al leader degli agrari Pawlak, e ad un agguerrito Kaczynski che potrebbe passare la prossima legislatura a lamentare la vittoria scippata.

Le prospettive post-elettorali di una coalizione anti-conservatrice allargata non sono comunque semplici: solo per quanto riguarda l’economia, PO e RP hanno una piattaforma liberale, PSL punta ad assistere la propria base elettorale rurale, mentre SLD punta ancora sul ruolo dello stato in economia. Tusk ha proclamato che solo un suo rinnovato governo potrebbe impedire a Varsavia di “fare la fine della Grecia”, ma una coalizione allargata si troverebbe comunque di fronte a molte più difficoltà nel trovare una linea politica comune, indebolendo il governo. I risultati dei partiti minori saranno quindi vitali per capire che tipo di governo siederà a Varsavia nei prossimi quattro anni.

lunedì 3 ottobre 2011

POLONIA: elezioni, meno sette

Pubblicato su East Journal, 3 ottobre 2011

Manca una settimana alle elezioni, e qualcuno nell’entourage del principale partito di governo a Varsavia, Piattaforma Civica (PO), inizia a sudare freddo. Diversi sondaggi danno l’attuale coalizione ancora in vantaggio, ma con un margine troppo basso per garantire sicurezza, e con una serie di possibili sorprese: dal voto dei giovani, alla possibile exploit del maverick Palikot.

Gli ultimi sondaggi danno Piattaforma Civica, del premier Donald Tusk, al 34%, contro Diritto e Giustizia (PiS), dell’ex premier Jaroslaw Kaczynski, al 29%. In seconda linea, si troverebbero pressoché ex aequo il Partito agrario PSL, partner di coalizione di Tusk (6%), il nuovo Movimento Palikot (RP), guidato da un controverso e radicale ex membro di PO, in forte crescita (6%), e i socialdemocratici di SLD, in discesa (8%). Come ha fatto PO a perdere terreno, quando fino a pochi mesi fa la rielezione per Tusk sembrava sicura, tanto da spingere il governo a calendarizzare la tornata elettorale durante la presidenza dell’Unione?

Da una parte PO sembra aver perso il voto dei giovani, che erano stati fondamentali per il suo successo nel 2007. Nelle città, dove PO ancora distanzia grandemente PiS, i giovani di più in più liberali sentono il richiamo di Janusz Palikot, che invoca la “modernizzazione” della Polonia. La piattaforma politica di Palikot, anti-clericale e anti-conservatrice, include la liberalizzazione delle droghe leggere, meno restrizioni all’aborto e la fine dell’educazione cattolica nelle scuole pubbliche: tutti temi su cui PO arranca, frenato dalle radici cattolico-laburiste di Solidarnosc e dall’ancoraggio nel PPE europeo, oltre che dalla sua base elettorale sempre più anziana. Palikot, inoltre, incarna il modello dell’imprenditore di successo, che per la sua ricchezza è considerato lontano dalla corruzione e genuinamente interessato a modificare lo status quo: un mix di Berlusconi e Pannella in salsa polacca, lontano dallo stile soft di Tusk.

Nelle campagne, al contrario, i giovani sentono il richiamo del PiS di Kaczynski, che ultimamente si è assicurato il supporto di alcuni musicisti punk, rock e rap. PiS si propone inoltre come partito “anti-establishment”, attraente per quei giovani che non sono riusciti, pur durante la crescita economica degli ultimi anni, a garantirsi un posto di lavoro fisso e soddisfacente. Lo stile della campagna elettorale di Jaroslaw Kaczynski, che per una volta ha evitato i toni forti e condotto una serie di comizi elettorali dal basso, sembra mettere all’angolo anche la tradizionale strategia di Tusk, volta a mobilitare gli elettori indecisi attraverso lo spauracchio di una ripetizione del “governo dei gemelli” del 2005-2007, un’esperienza conservatrice-populista che anche la Polonia moderata considera fallimentare.

Piattaforma Civica è oggi sulla difensiva: lo slogan “Faremo di più” sembra una goffa replica al “La Polonia merita di più” del PiS. La sua immagine è appannata da un programma elettorale anodino e senza grandi sorprese, e da un impegno sul fronte europeo, per via della Presidenza rotativa, che in questo periodo di crisi dell’euro potrebbe costituire un boomerang piuttosto che un effetto-vetrina.

Il risultato dei tre partiti minori potrebbe inoltre condizionare la vita di un ipotetico secondo mandato di Tusk. Tutti e tre i partiti sono potenziali partner di coalizione di PO, ma la convivenza al governo avrebbe un diverso sapore in base all’alleanza. Se la collaborazione con gli agrari di Pawlak si è già dimostrata fattibile, una coalizione con Palikot, personaggio radicale e dalla forte personalità, potrebbe riservare sorprese e nodi difficilmente risolvibili; infine, un’alleanza con i post-comunisti di SLD esporrebbe il governo alla rinnovata retorica anticomunista del PiS.

Dall’altra parte, Piattaforma Civica dimostra di tenere relativamente bene, in un contesto in cui tutti i partiti al governo hanno sempre pesantemente subito alle successive elezioni negli scorsi vent’anni. Se Tusk riuscirà a tenere duro e rilanciare negli ultimi giorni di campagna elettorale, mobilitando gli elettori indecisi e riconquistando i giovani, PO potrebbe vantare anche in futuro un ruolo di attore-perno del sistema politico polacco. Ma le sorprese, oggi a Varsavia, sembrano dietro l’angolo.

Per una breve guida ai partiti polacchi durante queste elezioni:
http://www.thenews.pl/1/9/Artykul/55905,Polish-Election-2011-made-simple-Part-1
http://www.thenews.pl/1/9/Artykul/56008,Polish-Election-2011-made-simple-%E2%80%93-Part-2
http://www.thenews.pl/1/9/Artykul/56078,Election-2011-made-simple-%E2%80%93-Part-3

venerdì 30 settembre 2011

Diritti umani e democrazie mediterranee: proposte per due passi concreti

Pubblicato su East Journal, 1° ottobre 2011

La proposta di adesione alla Convenzione-Quadro del Consiglio d’Europa per la protezione delle minoranze nazionali, e uno statuto di osservatore e di associazione al Consiglio d’Europa: due passi necessari per ancorare la democratizzazione dei nuovi regimi arabi

Qualche giorno fa ho aperto il dibattito proponendo l’apertura del Consiglio d’Europa e della sua Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU) ad Israele ed alle nuove democrazie mediterranee in nascita. In effetti la proposta è difficile, e difficilmente sarà presa in considerazione, poiché necessita di una revisione dei trattati del Consiglio d’Europa che potrebbe dare adito agli stati più scontenti della giurisprudenza della Corte di Strasburgo (Russia, ma anche Regno Unito) di chiedere ulteriori modifiche in senso restrittivo. Avanzo allora un altro paio di proposte, fattibili qui e ora.

-          L’adesione alla Convenzione-Quadro del Consiglio d’Europa per la protezione delle minoranze nazionali
A differenza della CEDU, la Convenzione-Quadro del 1995 (in vigore dal 1998) è un trattato aperto tanto agli stati membri del Consiglio d’Europa quanto ad altri stati non membri. L’adesione degli stati mediterranei darebbe un importante segnale perché anche quegli stati europei che ancora non l’hanno ratificata (Belgio, Grecia, Islanda) o nemmeno firmata (Francia, Turchia) lo facciano al più presto.
La Convenzione-Quadro è uno strumento di diritto internazionale più soft rispetto alla CEDU: non è direttamente applicabile nelle corti nazionali, e contiene degli impegni abbastanza vaghi per gli stati parte (ad esempio, non dà una definizione di minoranza nazionale). Dall’altra parte, essa contiene il decalogo dei diritti fondamentali della CEDU, meccanismo pensato già dall’inizio per gli stati post-socialisti dell’Europa orientale che ancora non erano membri del Consiglio d’Europa. Oltre alle libertà linguistiche (nomi, toponimi, uso della lingua minoritaria con la pubblica amministrazione) ed educative (libertà d’insegnamento della e nella lingua minoritaria), la Convenzione-quadro prevede il divieto di assimilazione forzata e l’obbligo di non limitare i contatti transfrontalieri.
Il meccanismo di controllo della Convenzione, relativamente complesso e di tipo diplomatico,  prevede dei rapporti nazionali e tematici periodici, redatti da un comitato di esperti con la possibilità di compiere missioni sul campo, e seguito da eventuali commenti dello stato in oggetto: un processo di naming & shaming che può condurre ad un miglioramento della situazione dei diritti delle minoranze.

Lo statuto di osservatore e di associazione al Consiglio d’Europa
Una seconda modalità, fattibile qui e ora, per sostenere la democratizzazione dei regimi mediterranei, è quella di offrire uno statuto di osservatore, e in seguito di stato associato, al Consiglio d’Europa. Lo statuto di associazione era stato impiegato negli anni ’50 in relazione alla Saar, territorio sotto tutela internazionale, e alla Germania Ovest uscita dall’occupazione alleata, per poi entrare in disuso, mentre lo statuto di osservatore è concesso oggi a diversi paesi extraeuropei. Gli stati osservatori dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (Israele, dal 1957, e il Marocco, dal 2011) potrebbero essere i primi ad ottenere lo statuto di associazione, seguiti poi dagli altri regimi, che potrebbero passare attraverso lo stesso statuto di osservatore. Tale riconoscimento non garantirebbe la possibilità di aderire alla CEDU, ma potrebbe essere utile come primo passo, permettendo la partecipazione ai lavori del Consiglio, con uno scambio di buone pratiche e una socializzazione dei delegati di tali stati al quadro europeo di promozione della democrazia e dei diritti umani. La stessa Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, nella sua riflessione del 2008 sullo statuto di stato osservatore (para.12), ha proposto che a tale statuto vengano fatti corrispondere impegni precisi, che lo stato osservatore si impegnerebbe a rispettare. Una tale prospettiva potrebbe costituire l’inizio di una riflessione su uno statuto di associazione al Consiglio d’Europa, che potrebbe implicare l’impegno degli stati extraeuropei associati al rispetto dei diritti umani fondamentali quali indicati nella CEDU (ad esempio attraverso la moratoria o l’abolizione della pena di morte in tempo di pace), anche senza che questa assuma valore legale nei loro confronti.

Con la proposta di adesione dei nuovi regimi mediterranei alla Convenzione-Quadro del Consiglio d’Europa per la protezione delle minoranze nazionali, e con il loro ingresso come osservatori, e in seguito associati, al Consiglio d’Europa, gli stati europei possono dare l’avvio ad un processo di ancoraggio alla democrazia e al rispetto dei diritti umani, che garantisca stabilità nel vicinato sud e prosperità nei suoi rapporti con l’Unione. Serve però agire ora: prima che l’inverno cali sulle primavere arabe, e prima che una nuova emergenza devii di nuovo l’attenzione delle diplomazie internazionali.

ITALIA-UE, serve una svegliata



Istituzioni sovranazionali in comune con i paesi del Mediterraneo, una nuova Convenzione per l’approfondimento dell’Unione, ed un bilancio europeo più consistente. E’ il contenuto della “Relazione programmatica sulla partecipazione dell’Italia all’Unione Europea”, licenziata il 7 settembre 2011 dalla XIV commissione della Camera dei Deputati. Ma i nostri deputati hanno la minima idea di cosa votano? Se fosse vero bisognerebbe farci le prime pagine dei giornali: il nostro paese ha finalmente una politica europea! Grattando sotto la superficie, purtroppo, la situazione è ben meno rosea. 

A livello formale, la relazione della XIV Commissione è un bordello: non c’è alcuna distinzione tra clausole introduttive e clausole operative, ma il tutto si risolve in un mix di raccomandazioni, presunti fatti, e vaghi impegni al governo. A livello sostanziale, il documento della Camera riprende alcune delle proposte del CIME nel suo documento “Verso il 2014” di febbraio 2011 e nel rapporto “Per una comunità euromediterranea” di maggio 2011. Le tre soluzioni che propone non hanno niente di nuovo, e finiscono per essere soluzioni sbagliate. Mettere insieme una Convenzione è una soluzione vecchia e logora: quella di Nizza ha partorito un mostro giuridico, la Carta UE dei Diritti Umani, e quella per il Trattato Costituzionale ha lavorato a vuoto, rendendo necessario ripescare il contenuto della Costituzione dal rigetto popolare attraverso il trattato di Lisbona. Il progetto di CECA euro-mediterranea, in secondo luogo, è un’ottima idea con nessuna possibilità di essere messa in atto; ancora, una soluzione vecchia, che ripesca nel repertorio delle “success story” continentali senza tenere in conto la situazione politica attuale. Infine, l’invito ad espandere il bilancio dell’Unione, più che condivisibile, si scontra contro il muro di gomma dell’azione/inazione del governo. 

Perché nel nostro paese, dal 15 novembre 2010 al 27 luglio 2011, il posto di Ministro per le Politiche Europee è rimasto vacante per ben 8 mesi, a seguito delle dimissioni di Andrea Ronchi. Perché la Legge Comunitaria 2011 non ha ancora passato l’approvazione della Camera dove la maggioranza, su questi temi inattuali, latita. Perché Franco Frattini, il nostro Ministro degli Esteri, sembra avere altre priorità, e ancora oggi risulta tra gli assenti al vertice di Varsavia di questa settimana sul Partenariato Orientale. Perché, infine, non è passata una settimana e la relazione della Camera è già carta straccia: l’Italia si è accodata, assieme ad altri, ai vertici di Francia, Germania e Regno Unito nel chiedere alla Commissione che il bilancio 2014-2020 dell’Unione sia il più compresso possibile, tutto il contrario di quanto lo impegnava a fare la Relazione della Camera. 

Secondo Niccolò Rinaldi (MEP IdV ALDE), in Europa “oggi anche la Polonia sa far valere i propri interessi meglio di noi”. Sarebbe invece ora di fare sul serio: nel 2014 l’Italia avrà di nuovo la Presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea, e non è un appuntamento che si possa improvvisare. La Polonia oggi nella stessa funzione se la sta cavando abbastanza bene, grazie ad una preparazione che viene da lontano. Se l’Italia dovesse restare nella stagnazione di oggi fino al 2013 (se non oltre!), non avrebbe tempo per prepararsi in maniera adeguata. Sarebbe un’altra opportunità persa, forse l’ultima: dal 2020 il sistema probabilmente cambierà, e allora non ci saranno più vetrine per farsi valere in Europa.

UE-GRECIA, era meglio senza?

Pubblicato su East Journal, 28 settembre 2011

DA BRUXELLES - 1981-2011, da trent’anni la Grecia è membro della CEE e dell’UE. Un percorso affrettato, che ha lasciato troppe questioni in sospeso: da Cipro alla Macedonia, alle mancanze della burocrazia e dello stato di diritto. Un “ventre molle” che oggi minaccia l’intera Unione.

Grecia e Turchia, un cammino parallelo
Grecia e Turchia iniziano in parallelo il loro cammino verso l’integrazione europea: nel 1961, appena quattro anni dopo la firma del Trattato di Roma che istituisce la CEE, il Protocollo di Atene segna l’associazione della Grecia alla comunità; poco dopo, il protocollo di Ankara (1963) fa lo stesso per la Turchia. Entrambi i protocolli di associazione hanno un chiaro valore di pre-adesione; i due paesi mediterranei sono considerati di diritto membri della comunità europea che si sta formando.
Tuttavia i rapporti di associazione si raffreddano presto: la Grecia cade nell’instabilità politica a partire dal 1965, con un regime militare che si installa nel 1967; la situazione si disgela solo negli anni ’70: assieme alla Grecia, anche Spagna e Portogallo tornano ai governi civili tra il 1974 e il 1976. Per i tre paesi mediterranei, l’adesione alla CEE rappresenta anche una prospettiva di ancoraggio democratico. La Grecia viene subito ammessa nella Comunità, nel 1981, mentre Spagna e Portogallo devono attendere un periodo di transizione, fino al 1986: Mitterand si era inizialmente opposto, per timore di un annacquamento della CEE. La Turchia, intanto, rimaneva in lista d’attesa.

La questione (irrisolta) di Cipro
Nel frattempo, gli stessi anni vedono incancrenirsi la questione di Cipro: sull’isola, il regime militare greco aveva spinto per un golpe che portasse all’unificazione (“enosis”) con la penisola ellenica. Tale mossa aveva provocato l’intervento in armi della Turchia, una delle potenze garanti di Cipro secondo il trattato di Zurigo del 1959. Anche a seguito della caduta del regime greco e del ritorno di un governo civile ad Atene, Ankara aveva continuato l’occupazione della parte nord dell’isola. Atene nel frattempo continua a sostenere le autorità greco-cipriote.
Dopo un decennio di tranquillità negli anni ’80, i problemi della Grecia riappaiono negli anni ’90 come problemi dell’UE. In primis, Cipro: nel round di negoziati verso l’adesione dei paesi dell’Europa centro-orientale all’Unione, la Grecia impone che sia inserita anche Cipro come contropartita per non bloccare i paesi post-socialisti. Cipro sale così sul treno dell’integrazione europea, senza che alcuno dei suoi problemi politici, economici e sociali sia stato risolto. Arraffazzonato in tutta fretta il piano Annan, questo viene silurato dalla scelta di tenere il referendum sulla riunificazione dopo l’ingresso nell’UE, anziché prima: così che i greco-ciprioti votano no, ed oggi dalla posizione di forza di paese membro possono mettere il veto ad ogni ulteriore negoziato di adesione della Turchia, che si sta stufando di attendere.

Il veto sulla Macedonia
In secondo luogo, la Macedonia: a partire dall’indipendenza, neanche troppo voluta, della repubblica jugoslava di Macedonia nel 1995, Atene si oppone in ogni sede a che il nuovo stato utilizzi il nome di Macedonia e si riallacci alla tradizione ellenistica di Alessandro Magno: secondo i governanti greci, si tratterebbe di un attentato alla tradizione greca da parte della popolazione slava e albanese della repubblica di Skopje, oltre che di una possibile futura rivendicazione territoriale sui più ampi territori della Macedonia storica. E così, Skopje deve farsi chiamare FYROM all’ONU, ha il suo ingresso nella NATO bloccato sin dal 2009, e i negoziati per l’ingresso nell’UE non sono mai iniziati, seppure l’Unione abbia concesso nel 2005 al paese lo status di candidato. Il tutto, per l’impuntatura di Atene.

Trattamento disumano ai richiedenti asilo
Ma non sono solo i nodi geopolitici a venire al pettine: con la sentenza M.S.S. contro Belgio e Grecia, del 2009, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha condannato i due stati per il trattamento disumano e degradante subito abitualmente dai richiedenti asilo nel paese ellenico. Così è stata messa la parola fine alla presunzione di parità degli standard di trattamento di rifugiati e richiedenti asilo nei paesi Schengen: secondo il regolamento UE “Dublino-2”, infatti, il primo paese di ingresso di un richiedente asilo è il paese competente a trattarne la domanda, e tale persona può esservi rispedita se viene trovata altrove.

Un’economia alla sfascio (dell’euro)
Infine, e questione non da poco, i conti economici: la Grecia è oggi il paese dell’UE a maggior rischio di bancarotta. Entrata nella prima fase dell’euro per il rotto della cuffia nel 2002 (secondo alcuni solo grazie ad aver truccato i conti), Atene rischia oggi di far fallire l’intera moneta unica a causa dell’enorme debito pubblico accumulato, e tenuto nascosto per anni dai governi del partito Nuova Democrazia.
Cipro, Macedonia, euro e rifugiati. A vedere i grattacapi che Atene dà oggi all’Unione, viene da chiedersi: non sarebbe stato meglio fare senza?

mercoledì 21 settembre 2011

Fate entrare le democrazie mediterranee nel Consiglio d’Europa

 Pubblicato il 17 settembre 2011 su East Journal

UE: come reagire alla primavera araba e al riconoscimento della Palestina?
Le rivolte democratiche nei paesi arabi sono state seguite da uno appello alla creatività, da parte dell’Europa, per sostenere e ancorare alla democrazia e ai diritti umani i nuovi regimi della sponda sud. L’UE ha risposto in maniera sostanzialmente reattiva, e nonostante i risultati della guerra in Libia, la sua immagine è rimasta appannata. Il mese di settembre, con la sessione ONU che valuterà del riconoscimento internazionale dello stato di Palestina, pone una nuova sfida alla diplomazia europea, che ancora una volta appare presa in contropiede e senza una posizione comune.
Già in febbraio, Bill Emmott aveva fatto appello perché l’Unione Europea aprisse le sue porte alle nuove democrazie mediterranee, idea ripresa su Libération per quanto riguarda la Tunisia. Ma un tale salto in avanti, dall’attuale labile rapporto di vicinato ad una ferma prospettiva di allargamento,  appare irrealistico nel breve periodo.
Una simile prospettiva di allargamento dell’UE a sud-sud-est, a fini di ancoraggio democratico, era già stata proposta dal Partito Radicale, nel 1988, come percorso di risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Rilanciata da Berlusconi in una sua captatio benevolentiae a Gerusalemme nel 2010, il tema è rimasto sottotraccia nella maggior parte delle opinioni pubbliche europee, e non ha d’altra parte sortito alcun passo concreto da parte del governo di Tel Aviv.
Ma se l’adesione all’UE rappresenta un passo troppo lungo, una opportunità più concreta è fornita da quell’altra organizzazione internazionale, la cui creazione ha preceduta di un decennio la CEE, e che detiene i diritti d’autore sulla bandiera blu a dodici stelle. Si tratta del meno conosciuto Consiglio d’Europa, fondato nel 1949 e che raggruppa oggi 47 stati, da Finisterre a Vladivostock, inclusi tutti gli stati post-sovietici con la sola eccezione della Bielorussia autoritaria. Il Consiglio d’Europa ha fatto della protezione dei diritti umani la sua cifra identitaria, attraverso la firma obbligatoria per i suoi stati membri della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Il rispetto della Convenzione è garantito dalla Corte CEDU di Strasburgo, a cui ciascuno degli 800 milioni di cittadini degli stati membri (ma anche qualunque straniero sottoposto alla loro giurisdizione) possono fare direttamente appello, una volta terminati i possibili ricorsi interni.
Ma come potrebbe l’UE spingere all’adesione al Consiglio d’Europa i propri paesi vicini? In effetti, l’Unione ha in atto con la maggior parte dei Paesi Partner Mediterranei (PPM) degli Accordi Euro-Mediterranei di Associazione (AA), entrati in vigore in vari momenti tra il 1998 (Tunisia) e il 2006 (Libano); solo Libia e Siria ne sono rimaste finora sprovviste. Tali accordi riportano una clausola tipica di “elemento essenziale”, all’art.2:
Relations between the Parties, as well as all the provisions of this Agreement itself, shall be based on respect of democratic principles and fundamental human rights as set out in the Universal Declaration on Human Rights, which guides their internal and international policy and constitutes an essential element of this Agreement. [Accordo UE-Libano]
Il riferimento alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, inserito negli accordi più recenti come chiave di interpretazione di ciò che si intende per rispetto dei diritti umani e dei principi democratici, rende possibile un legame con il Consiglio d’Europa e la Convenzione Europea dei Diritti Umani. Quest’ultima infatti, come espresso da Pierre-Henri Teitgen (Au sources de la Cour et de la Convention européenne des droits de l’homme, coll. Voix de la cité, Confluences, Bordeaux 2000), si proponeva di riprendere le garanzie più fondamentali tra quelle riportate nella Dichiarazione ONU, sottoponendole ad un controllo giurisdizionale che potesse nel tempo portare alla creazione di un sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo.

Opportunità dell’allargamento del Consiglio d’Europa
Il Consiglio d’Europa offre maggiori garanzie di flessibilità, rispetto all’UE, per una progressiva integrazione di Israele e delle nuove democrazie mediterranee:
1-      In quanto organizzazione specializzata in un campo specifico, offre minori resistenze da parte di stati già membri che potrebbero avere forti remore su altri dossier di competenza dell’UE (politiche agricole, etc);
2-      Il Consiglio d’Europa ha, sin dal suo inizio al congresso dell’Aja del 1948, spinto per una versione estesa del concetto di Europa, invitando al dibattito da subito la Russia e la Turchia (ma anche la Gran Bretagna), ed allargandosi successivamente fino al Caucaso meridionale; un eventuale allargamento ad Israele e alle altre democrazie mediterranee sarebbe fattibile, per quanto innovativo;
3-      La partecipazione di Israele e delle altre democrazie mediterranee alla CEDU, col suo focus privilegiato sui diritti umani, potrebbe costituire un importante test della volontà di tali governi di garantire lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali ai propri cittadini e agli stranieri sotto la propria giurisdizione;
4-      Con la progressiva integrazione tra i sistemi UE e del Consiglio d’Europa di salvaguardia dei diritti umani (l’UE ha in corso negoziati con il Consiglio d’Europa per accedere alla Convenzione, così come stabilito dal Trattato di Lisbona), l’adesione al sistema di Strasburgo potrebbe divenire una precondizione, da parte dell’Unione, per la concessione dello Status Avanzato nei suoi rapporti di vicinato con i paesi mediterranei; tale status è oggi concesso a Marocco, Giordania e Israele, pur con ben pochi contenuti sostanziali.
5-      Tutti gli attuali stati membri del Consiglio d’Europa intrattengono già relazioni diplomatiche con Israele

Ostacoli
Ciononostante, diversi ostacoli si presentano, ad una prima analisi:
1-      Il sistema di Strasburgo è già ora sotto stress, per mancanza di risorse e di volontà degli stati di far rispettare le sentenze CEDU da parte dei giudici interni. Le recenti proposte di legge, in Gran Bretagna e in Russia, volte ad introdurre un controllo successivo di costituzionalità delle sentenze CEDU, costituiscono un segnale preoccupante. Inoltre, le scarse risorse disponibili rendono grave il carico di arretrati da smaltire.
2-       La Convenzione include una serie di diritti umani e libertà fondamentali inderogabili (diritto alla vita, interdizione della tortura, della pena di morte, diritto ad un equo processo, rispetto della vita privata e familiare), a cui si aggiungono tramite Protocolli ulteriori diritti di successiva codificazione, quali il diritto alla proprietà (art. 1 del 1° protocollo). Tali diritti potrebbero far sorgere problemi particolari per Israele. La giurisprudenza successiva al caso Loizidou v. Turchia (1996), relativo ai beni dei cittadini greco-ciprioti nel territorio della Repubblica Turca di Cipro Nord, potrebbe rappresentare un precedente per la richiesta di restituzione o compensazione da parte delle centinaia di migliaia di palestinesi espulsi da Israele o dai territori occupati.
3-      Lo stabilimento di relazioni diplomatiche con Israele potrebbe divenire necessario per l’adesione al sistema di Strasburgo da parte delle nuove democrazie arabe; allo stesso tempo, Israele potrebbe verosimilmente non volersi sottoporre ad uno scrutinio sovranazionale della propria legislazione interna, fintanto che permangono le condizioni per cui lo stato ebraico si considera in uno stato di guerra.

Raccomandazioni
Perché il rispetto dei diritti umani divenga un cardine della politica estera di vicinato dell’Unione Europea, e perché Israele e le nuove democrazie mediterranee possano integrarsi nel Consiglio d’Europa, è fondamentale che alcuni passi siano presi.
1-      Gli stati membri del Consiglio d’Europa, inclusi Russia, Regno Unito e Turchia, devono impegnarsi a garantire alla Corte di Strasburgo adeguate risorse per lo smaltimento del carico di casi arretrati, e una efficace esecuzione delle sentenze nel diritto interno. L’UE, che diverrà parte della Convenzione nel prossimo futuro, deve fare pressione, sui suoi stati membri e candidati, affinché tali impegni siano portati avanti.
2-      La Politica Europea di Vicinato dell’UE deve prendere sul serio la clausola di “elemento essenziale” relativa al rispetto dei principi democratici e dei diritti umani fondamentali, presente in pressoché tutti gli Accordi di Associazione tra l’Unione e i paesi mediterranei. Ciò può avvenire soltanto attraverso la spinta per l’adesione di tali paesi al Consiglio d’Europa, come precondizione per uno Status Avanzato nei rapporti di vicinato europeo.
3-      L’adesione di Israele e delle altre democrazie mediterranee alla Convenzione CEDU potrebbe limitarsi in un primo momento ai diritti e libertà fondamentali, tralasciando le ulteriori clausole in grado di costituire una pietra d’inciampo, quali l’art.1 del 1° Protocollo sul diritto alla proprietà.
4-      Per evitare dilemmi di azione collettiva, l’adesione di Israele e degli altri paesi democratici mediterranei (Palestina inclusa) al Consiglio d’Europa dovrebbe far parte di un pacchetto globale, con una chiara road-map, di risoluzione del conflitto arabo-israeliano. Le primavere arabe rappresentano una importante opportunità di rilancio del processo di pace, che non deve essere lasciata sfuggire.

Conclusioni
Una richiesta da parte dell’UE di entrare a far parte del Consiglio d’Europa e di mettere in pratica la Convenzione Europea dei Diritti Umani costituirebbe così un rafforzamento della politica di condizionalità, dando finalmente significato alla clausola di elemento essenziale degli accordi di associazione. Le relazioni dell’UE con i vari dittatori, da Ben Ali a Mubarak, ha già fatto troppi danni all’immagine e alla credibilità del soft power continentale. Chiedendo ai paesi vicini di entrare a far parte del club di Strasburgo, l’UE dimostrerebbe di prendere sul serio la necessità di garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali nei paesi vicini.

UE: Euro-crisi, don't let slip the dogs of war


«Stavamo parlando della crisi in Eurolandia. Mi ha detto: ‘Sai, dopo tutte queste scosse politiche, crisi economiche, è molto raro che nei prossimi 10 anni potremo evitare una guerra ‘. Una guerra,  signore e signori. Sto seriamente pensando di chiedere una Green Card per gli Stati Uniti per i miei figli».
Così Jacek Rostowski, ministro delle finanze della Polonia, paese presidente di turno del Consiglio dell’Unione Europea, di fronte al Parlamento Europeo, richiamando un dialogo con un amico banchiere. Rostoweski commentava così un rapporto della banca svizzera UBS sui costi di un eventuale collasso della moneta unica, secondo il quale, storicamente, le unioni monetarie non si spezzano senza una guerra civile o una reazione autoritaria.
Rostowski voleva forse ottenere la prima pagina, e ci è riuscito: la notizia è rimbalzata fino sul Bangkok Post. Un ultimo appello, ai responsabili europei, perché si accordino su una governance economica sovranazionale dell’Unione su cui ormai quasi tutti sembrano aver raggiunto un consenso.
Parole che ad un osservatore occidentale sembrano fuori luogo: una guerra? Nel nostro continente? Tra paesi ormai civili e pacificati? Be’, non è un caso che una prospettiva simile – tralasciando per un momento il rapporto di UBS – venga dalla bocca di un politico polacco.
La possibilità di ritrovarsi coinvolti in una guerra nel medio periodo – per intenderci, nell’arco della nostra vita; nel lungo periodo, come diceva Keynes, saremo tutti morti – non è assente dalla mentalità polacca. Sarà forse per colpa della storia o della geografia, ma ricordo di averne discusso esattamente un anno fa con il mio amico Konrad, di Lodz. Va bene la garanzia della NATO, va bene l’UE, ma la Polonia ha ancora nel subconscio l’esperienza delle tre spartizioni (1772, 1793, 1795), la linea del fronte russo-prussiano nella grande guerra, il patto Molotov-Ribbentrop del 1939,  fino alla dichiarazione di stato di guerra e legge marziale del 1981. Il progetto di Bush di scudo spaziale è stato lungamente un soggetto di dibattito politico a Varsavia negli ultimi anni, e ancora oggi una delle tre priorità individuate per la presidenza polacca del Consiglio UE era la politica di Difesa comune.
Si capisce allora perché Rostowski abbia voluto utilizzare il termine “guerra” per sottolineare la gravità della situazione attuale e i rischi della crisi monetaria. Se un politico dell’Europa occidentale si sarebbe limitato a parlare di crisi economica, disoccupazione, recessione, per un politico polacco la rimessa in discussione del processo di integrazione porta il volto ben più concreto e più volte conosciuto del conflitto armato.
E allora, incamminiamoci verso l’unione fiscale e, come suggeriva Shakespeare, teniamo al laccio i mastini della guerra.

lunedì 12 settembre 2011

CROATIA-ITALY. Memory reconciled. The Presidents' Speech.



"Today, the Croatian and Italian peoples have a common future in a Europe united on a democratic basis. Soon there will be no borders between our two countries. "It’s September 3, 2011, and the heads of state of Italy and Croatia, Giorgio Napolitano and Ivo Josipovic, celebrate with a common discourse, read in both languages, the end of the negotiations for the accession of Croatia to the European Union. The scenario is the Roman Arena in Pula, Istria, now an officially bilingual (Croatian and Italian) municipality in Croatia.

The speech of the two presidents recalls both the historical chapters of the dispute between the two countries: the fascist occupation and attempts at forced Italianization, as well as the Yugoslav partisan vendettas and the tragedy of the ‘foibe’, sinkholes: "We condemn once again the totalitarian ideologies that have suppressed cruelly freedoms and trampled upon the individual's right to be different, by birth or by choice. "

It is not by chance that such a mutual recognition is possible only today. By one side stands an Italian President who comes from the best part of the history of the Italian Communist Party, far from any claim of the nationalist right, but also skeptical about the uncritical brotherhood of most of his own former party with the League of Communists of Yugoslavia. By the other side stands a Croatian president that, although much younger, has gone through the same path in the reformist faction of the Croatian communists, working for their transformation in the current Social Democratic Party, and after the independence remained for a decade out of politics, away from the sirens of the authoritarian nationalism of the "Father of the Nation" Tudjman.

"We cultivate the memory of the victims and we are close to the pain of the survivors. In forgiving one another our wrongdoings, let us turn our gaze to the future ". As Marzio Breda wrote on Corriere, the two presidents have shown the courage to say together important words, whose future credibility is based on the open recognition of the reciprocal wrongs of the past.
Actions like these create commonalities, and cut the grass under the feet of those political entrepreneurs in history and fear, that live upon the exploitation of a memory still brooding like embers. In 2013, Croatia will join the EU, and exactly in that moment the attention will have to remain high, so that the nationalist discourses in the two countries do not regain a foothold. Just as happened in the case of the countries of Central and Eastern Europe, it is after the EU accession that political actors, on both sides of the border, might find in Europe a new arena, where to use for political purposes a memory not yet reconciled and ready to be revived. Likewise happened for the Germans expelled from Poland and Bohemia, likewise for the Hungarian minorities in Slovakia and Romania.

The fundamental error in these cases is to apply to yesterday the categories of today, asking for an impossible reparation from the children and grandchildren of the leaders of that time. Only a reconciliation based on the mutual recognition of the wrongdoings, the impossibility to repair them, and the will to live together in a "common European home", to use the
definition of Gorbachev (yet another communist!) recalled by Napolitano and Josipovic, will ensure the common life of the different peoples of the Adriatic basin within the European Union, without turning this last into a new arena of confrontation. In this sense, the words of Josipovic and Napolitano have  shown the way, as two presidents should do, "in the name of our states and our peoples."